IO LE FECI

IO LE FECI

Un’avventura fisio-filosofica di Lallo De Bonis

 

       di Ugo Derantolis

 

«In stercore invenitur»

                                                                                           (motto alchemico)

 

        Chi, scavando nel solco del platonismo, seguita a demonizzare l’attività corporea, ritenendola indegna d’interesse, se non addirittura greve e scabrosa, si allontani pure da questo scritto. Esso gli reca un messaggio in cui corpo e anima camminano mano nella mano e procedono orgogliosamente, senza cedimenti.

In questa nuova puntata tratterò, infatti, della scoperta a cui è giunto il filosofo contemporaneo Lallo De Bonis, indagando con passione e tenacia le proprie deiezioni. Per questa via caudale è riuscito a sciogliere una delle trame più recondite dell’esperienza umana.

Assistetti io stesso al disvelamento e testimonierò con precisione come si svolsero i fatti.

 

 

 

 

È noto che, nel cenacolo degli ammiratori del De Bonis, sempre si approda a quell'eccitante momento in cui occhi e orecchie si orientano verso il maestro, calamitati dalla sua oracolare parola. L’episodio in questione si svolse a Napoli, naturalmente. Era un sabato pomeriggio, sedevamo nel Caffè Mexico di via Alessandro Scarlatti, al Vomero. Noi adepti avevamo già esauriti tutti gli argomenti, quelli frivoli e anche i più alti, mentre Lallo aveva sorseggiato quietamente il suo caffè; consumato adagio un cornetto; nettato le labbra; sorbito un bicchiere d’acqua; lustrato le lenti con la pezzuola della custodia e roteato gli occhi verso i quattro angoli del locale. A poco a poco, i conciliaboli si spensero e tutti ci rivolgemmo alla nostra guida soave. Vigeva il più assoluto silenzio, mentre l’attenzione per Lallo toccava il diapason. Vedendoci così fissi e intenti, persino gli altri avventori tacquero, in attesa che accadesse qualcosa d’insolito. I camerieri e il barman si erano addirittura bloccati ai loro posti, rispettosamente simili a statue di cera.

Lallo schiuse le labbra, schioccò la lingua e serenamente comunicò: «Questa mattina ho evacuato con estrema soddisfazione. Il colore leggermente verdino delle feci dimostra che ho ben digerito i friarielli dell’altro ieri».

Inizialmente, tutti restammo spiazzati, oserei dire imbarazzati, al cospetto di una dichiarazione così intima e sincera, talché nessuno osò commentarla. Le sonore risate in cui scoppiarono gli ignavi dei tavoli vicini ci rivelarono subito come i non iniziati cogliessero dell’affermazione di De Bonis solo l’aspetto escrementizio, volgare, ignorandone, invece, il valore metaforico e i vergini abissi spirituali a cui introduceva. Per di più, sebbene tutti fossimo pronti a giurare che il magister avesse appena sollevato il velo corrivo che occultava una potente verità, nessuno di noi riusciva a evincere con chiarezza quale fosse; cosicché non potemmo tappare la bocca a quei lazzari che sghignazzavano alle nostre spalle.

Dato che Lallo, da quel momento, sino ai saluti, si dilettò esclusivamente nell'osservare i clienti del bar che ci schernivano e i camerieri che scuotevano la testa, dovemmo noi stessi, tornati alle nostre inquiete solitudini, sviscerare il segreto di quel koan; essendo l'enigma tanto affascinante e sostanzioso, quanto– absit invidia verbo – apparentemente insensato.

Rimuginai a lungo quella notte e anche il giorno seguente, e molte volte fui sul punto di telefonare allo stesso Lallo, per chiedergli lumi. Ma mi tratteneva l’idea che in tal modo ne avrei tradito l’insegnamento: “Adopera la tua intelligenza; abbi fiducia in te!”, egli ha sempre implicitamente suggerito. Ammetto, per altro, che tra gli allievi ci aiutammo reciprocamente a imbastire la questione, almeno quel tanto da evitare clamorosi abbagli. In noi, oltre tutto, aleggiava il timore che Lallo ci avesse deliberatamente ingannati, per irridere la fede incrollabile che nutrivamo in lui. Ma, la mattina del lunedì, quando ero ormai rientrato a Roma e giusto sostavo nel sacello del bagno di casa, di colpo pervenni al più icastico, scintillante e serrato dei ragionamenti.

La frase di Lallo parlava chiaro sin dall'’inizio, ma soltanto adesso riuscivo a  comprenderne il senso; mi era stato indispensabile un lasso di tempo per metabolizzarla, definirla e, in ultimo, ammirarne la perfetta armonia. E non a caso! Il filosofo, infatti, aveva esattamente sottolineato la relazione tra l’evacuazione mattutina e i friarielli che aveva consumato ben due giorni prima. Egli, dunque, aveva indicato come la soddisfazione di un desiderio fosse imprescindibilmente subordinata al passare del tempo. Collegava l’andamento lento, quieto, maturativo, che scava e scorre all'interno del corpo, simile a un fiume carsico, alla conquista del piacere. In altre parole, De Bonis dimostrava che il vero godimento non nasce dalla soddisfazione bruta di un impulso, dalla risposta immediata a una spinta incontinente, poiché questo processo semmai denuncia una sofferenza, né più né meno come la scarica di dissenteria rappresenta il sintomo di un disturbo intestinale. No, il piacere vero, sostanzioso, pieno, nasce da una progressiva e inconscia gestazione, da quel lavoro creativo e in buona parte inconsapevole, dell’addensare prima, modellare poi e segmentare infine, che chiamiamo immaginazione!

Inoltre, il vate partenopeo non si era limitato a suggerire solo questo: citando i «friarielli», ovvero una speciale varietà di cime di rapa che si coltiva esclusivamente nella zona vesuviana, aveva impresso al suo pensiero un’ulteriore torsione: egli aveva collegato il piacere dell’immaginazione alle origini, ai retaggi e all’identità culturale. Un’identità che incanala e fa fruttare la natura degli istinti. Ed è parimenti evidente, ci rivela De Bonis, che questa identità così verde e vitale, si dimostri, allo stesso tempo, più che vulnerabile, labile, a rischio costante di essere distrutta dal magma - ovvero dai conflitti storici, sociali, antropologici che, se da un lato solidificati la nutrono, dall’altro, quando troppo roventi, la inceneriscono. Paradossalmente, assurdamente, direbbe Camus, proprio nella sua caducità, nel suo straziante e poetico squilibrio, assorbendo la ricchezza “minerale” del sottosuolo vulcanico, il friariello-anima diventa sopraffinamente “gustoso”, “saporito”.

  La mia analisi si ferma purtroppo qui, al primo gradino del percorso esegetico a cui avvia il grandioso verbo lalliano.  So per certo, però, che esistono  allievi di De Bonis che hanno studiato il cromatismo dei friarielli, prendendo in considerazione le qualità psicologiche, mediche e spirituali che l’Occidente e l’Oriente attribuiscono al verde. Nella tradizione indiana, ad esempio, di tale colore è la vibrazione del Chakra del Cuore“Anahata” – dove alberga la scintilla divina, ha centro il Sé Superiore, l’equilibrio, l’armonia, l’amore assoluto, la gioia dei sentimenti, la compassione umanizzante, ma anche hanno sede i patimenti emotivi, i dolori dell’anima. Sono stimolanti riflessioni che troverete agevolmente su pubblicazioni, riviste e numerosi siti Web.

Lo scopo del mio sintetico intervento resta, invece, soprattutto quello di avvicinare maggiormente il pubblico al genio più unico che raro, e ancora tanto inesplorato, di Lallo De Bonis.