L’UOMO CHE COSTRUIVA CHIMERE

L’UOMO CHE COSTRUIVA CHIMERE

 

 

 

        di Francesco Frigione

 

        L’uomo che costruiva chimere venne complimentato dai colleghi. S’improvvisò una festa in azienda e tutti fecero largo tra i computer alle stoviglie di plastica. Poi, ognuno tornò a casa, tranne lui, “l’Ingegnere”. Lavorava meglio nel silenzio e in penombra, accompagnato dal ronzio della stampante 3D e dal gocciare dell’acqua, che filtrava nel muro da un tubo del bagno. «Un giorno o l’altro», commentò tra sé, «la parete verrà giù di colpo». Ma poco gli importava della conduttura; era troppo impegnato ad accumulare strati di carbonio in strutture sempre più complesse, fino a che questi agglomerati diventavano minute creature, bizzarri ingranaggi di carne e sangue. 

 


Avevano esoscheletri coriacei e pungenti, o ossa sottilissime, oppure erano retti da noccioli di cartilagine, elastica e resistente come la tela dei ragni; altri ancora scrutavano il mondo con stereoscopici occhi da mosca. Ve n’erano, poi, di leggerissimi, che aleggiavano a mezz'aria, come nuvole di plancton.

Queste macchine biologiche tendevano a relazionarsi con la stampante stessa e ad accrescerne le funzioni, in modo sorprendente. Alcune rivelavano da subito un’alacre intraprendenza, mentre altre bighellonavo, senza scopo, dentro l’immenso pianale dell’impianto. Eppure, sembrava che la loro presenza fosse desiderabile e necessaria per la macchina, quanto quella dei membri più fattivi. C’erano quelle che vegetavano in un abulico dormiveglia; e quelle che si destavano da un lungo letargo e agivano freneticamente per giorni; quindi ripiombavano nel sonno.

        Una squadra di biologi ne studiava quotidianamente i comportamenti, per stabilire analogie con gli esseri naturali e per evidenziare ricorrenze e leggi che garantissero la prevedibilità. Purtroppo, le chimere erano solite smentire le ipotesi, sicché le loro condotte restavano impenetrabili.

        L’Ingegnere disponeva di un’intera area del capannone per il suo assemblaggio, in perenne funzione. Aveva scoperto che i pinnacoli semoventi scaturiti da un precedente progetto, a volte, scagliavano nel vuoto dei cavi di dendriti, sottili ma robusti come liane. Alle estremità di queste protesi neuronali stavano piccole bocche senza denti. Le labbra succhiavano l’intonaco delle pareti della fabbrica, per rilasciare al suo posto uno stucco concimante. Così, nel tempo e con l’aiuto dei bulloni e delle brugole biologici, che la stampante sfornava a getto continuo, avevano trasformato quell'ala in una fitta serra di licheni fosforescenti dall'odore penetrante. Spesso lui andava a schiacciare un pisolino lì sotto e, al risveglio, riprendeva gli abituali controlli dei monitor.

        Il fatto è che questo lavorio autonomo della macchina consentiva di rispondere sempre meglio alle esigenze produttive dell’azienda. L’Ingegnere era consapevole che quel brulichio, che tanto lo assorbiva, veniva tollerato dai piani alti soltanto perché la sua invenzione riusciva a soddisfare gli ordini che piovevano sull'industria in misura sempre più ingente. E, cosa strana a dirsi, sembrava che anche la macchina lo sapesse. Anzi, era innegabile che intuiva cos'era opportuno produrre e quando farlo. Si era generato, infatti, un rapporto di crescita esponenziale tra l’offerta e la domanda, dove la prima precedeva la seconda, determinandola con precisione infallibile: man mano che la macchina sfornava prototipi, si moltiplicavano le richieste del mercato per quei nuovi prodotti.

I cervelloni del commerciale non ci misero molto a scoprire che erano proprio le chimere all'apparenza più inutili a stimolare maggiormente le vendite. Durante una convention, indetta per celebrare la vertiginosa ascesa dei profitti, l’amministratore delegato proclamò ai soci entusiasti che l’azienda avrebbe fornito, a scatola chiusa, ogni finanziamento le avessero richiesto i dirigenti del reparto biomeccanico.

In realtà, l’Ingegnere avvertiva, ormai con sgomento, che solo una minima quota dei progetti affidati alla macchina si traduceva nel risultato pianificato in partenza. Lo zoo in incessante espansione, in cui trascorreva la sua vita, aveva sempre più peso negli esiti della produzione. L’apporto dei progettisti era diventato nulla più che un semplice stimolo alle soluzioni escogitate dalla macchina. Inoltre, era evidente che la gigantesca creatività dell’impianto aveva finito per impoverire gli schemi approntati dal reparto elettronico. Tutti confidavano nel potere della stampante di trasformare gli abbozzi in geniali prodotti finiti. Anzi, maggiore era il grado di libertà di cui godeva lo strumento e migliori erano i risultati. I pochi insuccessi, degli ultimi tempi, derivavano proprio dalla volontà umana di predeterminare il lavoro.

Nell’occhieggiare blu dei licheni, l’Ingegnere spiava adesso con apprensione il movimento di alcuni polipetti muniti di dita: si trattava di estensioni rivelatesi utili a svolgere lavori in meandri angusti, dove un essere umano avrebbe avuto difficoltà a penetrare. Avevano conquistato il mercato dell’ingegneria meccanica, dell’edilizia civile e della chirurgia, e ora era appena giunta un’impressionante serie di ordini dai settori navale, aeronautico e aerospaziale. Si supponeva che potessero riparare guasti meccanici ai veicoli in azione, anche in condizioni proibitive.

Durante le due ore di sonno a cui si era abbandonato, i “cefalopodi pentadattili”, come li chiamavano i biologi, avevano costruito una grande vescica pulsante che dal muro umido del bagno, agganciandosi al cielo del capannone, riscendeva sul settore progettazione. I polipi stavano, ora, rapidamente allacciando dei filamenti vibratili tra i computer. Quindi, con un suono, tutte le macchine si accesero in contemporanea e gli schermi irradiarono le scrivanie. L’Ingegnere notò che sui monitor si succedeva un’attività incessante. Migliaia di files di scrittura venivano aperti e sviluppati; grafici tridimensionali redatti e pagine di calcolo computate, velocissimamente.

Dopo trenta minuti, i computer si spensero all’unisono e la stampante brontolò in maniera insolita. Di colpo aveva smesso di sfornare creature, per cominciare a tremare, sottoposta a una pressione esorbitante che partiva dall’interno della struttura. L’Ingegnere temette che la macchina delle chimere stesse per disintegrarsi e trascinarlo nel suicidio. Un sibilo lacerante allora gli perforò le orecchie, facendogli perdere i sensi.

Si risvegliò in una stanza bianca, insonorizzata, dai profumi celestiali. Le creature formicolavano intorno a lui; ve n’erano di nuove, mai viste. Quando provò a drizzare la schiena per osservarle meglio, il giaciglio su cui era adagiato gli sospinse il busto in avanti. Avvertì una carezza sollevargli i capelli dalla fronte. Sorrise. Non sarebbe più tornato in fabbrica. Nessuno vi avrebbe lavorato più, ne era certo. Presto, finalmente, le creature avrebbero sollevato gli uomini dall’affanno di esistere.