FRANCESCO BORROMINI: LA MELANCONIA DEL GENIO

FRANCESCO BORROMINI:

LA MELANCONIA DEL GENIO

 

di Ivan Battista

 

 

Borromini giovane (Anonimo)

                                                                      

«Non ha mai sofferto di essere pagato male,

        ha sofferto di essere male amato.»

Etienne Barilier

                                                                                              

       La creatività artistica è la più efficace risposta alla sofferenza del vivere. Lo scriveva molto bene Aldo Carotenuto nel suo Trattato di psicologia della personalità e delle differenze individuali ormai più di ventiquattro anni fa: « … la creatività può costituire la risposta più ampia, pregnante, meno diretta e meno specifica alla sofferenza psicologica.» (Carotenuto, A., 1991, pag. 533). In effetti, spesso l’artista è tale perché sofferente psicologicamente e non sofferente perché artista. La vita di Francesco Castelli, in arte Borromini, (una delle ipotesi più accreditate circa l’adozione del suo cognome d’arte sembra sia perché fosse molto devoto alla figura di San Carlo Borromeo) non lascia dubbi a tal proposito. 

 

 

 

Un’immagine del Lago di Lugano, nel Canton Ticino (Svizzera)

 

Nasce il 27 settembre del 1599 a Bissone sul lago di Lugano, in quel che oggi è il Canton Ticino. Territorio particolare - già per più di cinquant’anni sotto il potere svizzero al momento della nascita di Francesco - ma anche di lungo dominio visconteo, (il biscione è ancor oggi il simbolo della città di Milano). La piccola città giace ai piedi della Sighignola, una montagna che sul versante svizzero si getta di colpo nel lago, con un salto “suicida” di circa mille metri. L’ambiente è caratteristico, molto suggestivo, ma esprime al contempo esasperazione e forte contrasto. Stretto nella morsa del lago, Bissone ha una disposizione planimetrica limitata, non contiene più di due grandi strade. «Le sue stradine, chiamate ‘contrade’, e i porticati dalle volte di pietra lungo la via principale del paese, che corre grosso modo parallela alla riva del lago, sono interessanti, ma non tanto da meritare una visita. In realtà, il paesino fa nascere una certa tensione, per non dire ansia, nel visitatore. (…) Ma a dire il vero sono le montagne che sconcertano. Torreggiano sopra il paese, pareti a strapiombo di nuda roccia alleggerite appena dai cipressi e dalle palme che sorgono ai loro piedi. Con la loro ombra umida, onnipresente, assediano Bissone come muti guerrieri.». (Morrisey, J., 2005, pag 37)

Se è vero che le particolarità dei luoghi dove si nasce influenzano la prima formazione psicologica, Bissone e le sue condizioni geo-orografiche e atmosferiche, insieme con una miriade di altre suggestioni, possono aver condizionato il primo sviluppo psichico dello straordinario architetto. Già negli anni Settanta del secolo scorso, il bravo divulgatore scientifico Frederic Vester (Vester, F., 1987) portava alla conoscenza di tutti noi le prime immagini della cellula neuronica riprese col microscopio elettronico. Gli straordinari “boom” di interconnessioni, che nel cervello avvenivano in massima concentrazione da zero a trentasei mesi, si nutrivano delle esperienze fatte in declinazione con l’habitat.

 


Un neurone, fotografato attraverso il microscopio elettronico

 

      Oggi, con l’affinarsi della tecnica, le immagini del neurone e delle sue componenti più esterne sono visibili in modo sorprendente e nitido. Lo sviluppo delle strade (dendriti) e delle autostrade (assoni) che in massima parte permettono lo scambio comunicativo tra i miliardi di cellule nervose per mezzo dei loro neurotrasmettitori, il loro moltiplicarsi non solo nel numero, ma anche nel modo, sono alla base dello sviluppo cerebrale e, quindi, plasmano anche un principio strutturale della personalità. Gli ultimissimi studi di neuroscienza ci offrono la prova provata di tutto ciò. In modo estremamente interessante, e molto collegato con quanto sopra sostenuto, Harlene Hayne e Gabrielle Simcock, due psicologhe dell’università di Otago in Nuova Zelanda, sostengono che i ricordi della prima infanzia si formano e restano nella nostra psiche, ma non riusciamo ad esprimerli e a comprenderli perché non li abbiamo catalogati col verbale. Le esperienze avvenute prima della possibilità di catalogazione col linguaggio non sono facilmente rintracciabili perché non hanno indice. I volumi sono nello scaffale, ma solo il caso li fa trovare. Sono memorie implicite, ricordi di cui non siamo consapevoli, ma che influenzano la personalità fin dalla nascita e, soprattutto, condizionano le scelte adulte future.

Francesco Castelli non fa eccezione alla regola. Si forma in un territorio dagli opposti esasperati, insieme aspro e lussureggiante, dove la bruma è più presente che a Napoli, dove la gente oscilla tra l’introverso e il cordiale, ma non è mai invadente. I suoi artigiani, scalpellini e capi mastri competenti e fieri, per lunghi anni contribuirono a costruire i palazzi, le chiese, le grandi opere di tutta Europa, da Vienna a Palermo, da Praga a Istanbul. Fu anche a contatto con questo orgoglio “costruttivo” che si formò il carattere di Borromini.

Francesco partì giovanissimo per Milano, aveva dieci anni. In realtà, fu mandato dal padre presso lo scultore Andrea Biffi in qualità di apprendista scalpellino. Nel 1619, a vent’anni, al contrario, fu lui di sua iniziativa a lasciare Milano e a dirigersi verso Roma, dopo aver riscosso un intero credito del padre, ma senza dire nulla al suo genitore. Interessante dinamica famigliare dalla quale si può ipotizzare un nucleo abbandonico nella personalità di Borromini. Nucleo che tanto influenzerà le sue veementi, e poco diplomatiche, risposte di doloroso orgoglio ad ogni contestazione delle sue opere. La personalità abbandonica vive male ogni tipo di critica negativa poiché vi reagisce come se fosse una dichiarazione di allontanamento e di distacco.

 

 

Spaccato del Duomo di Milano

 

Nella città di San Carlo Borromeo fa la cosiddetta gavetta come scalpellino. Nella fabbrica del duomo, il nostro si muove, insieme con tante altre maestranze, agli ordini dell’architetto Francesco Maria Ricchino. Ovviamente, è rapito dalla suggestione gotica. Impressioni, nonostante la grande differenza tra gli stili, che proviamo inspiegabilmente anche noi, per l’appunto, osservando il chiostro adiacente alla chiesa di San Carlo alle quattro fontane in Roma.

 

 

Roma, la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane

 

  Queste esperienze lavorative basilari formeranno la base della sua bravura. Le esperienze primarie psicologiche, invece, costituiranno le fondamenta del suo carattere schivo, ostico e tendente alla depressione. Non è ininfluente notare che a Roma, Francesco potette contare su un appoggio concreto, ma anche e soprattutto psicologico, di una figura parentale di area materna. A Roma, fu Leone Garovo, fratello della madre (Anastasia Garovo), ad accoglierlo nella sua casa in vicolo dell’Angelo, tra Ponte Sant’Angelo e la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini.

 

 

L’architetto ticinese-romano Carlo Maderno

 

Il colpo di fortuna volle che il suocero di Leone Garovo fosse proprio il validissimo architetto Carlo Maderno (un parente acquisito, dunque, e non un consanguineo) che lo prese con sé, proteggendolo e insegnandogli, con ogni probabilità, i fondamentali della sua straordinaria competenza di ingegnere costruttore.

  Figlio di un capomastro, Francesco aveva già subìto certamente l’influenza della professione paterna. Al culmine della sua competenza, sapeva fare tutto e meravigliosamente bene: dall’impasto delle materie per comporre i leganti migliori, al mettere un muro a piombo o alla scelta dei mattoni di foggia e sostanza più conveniente (prediligeva le materie povere perché, a suo dire, più plasmabili); e pretendeva che i suoi lavoranti sapessero fare come lui. Guai se qualcosa non fosse andato come voleva! In questo era intollerante e tirannico!

 

 

Francesco Borromini

 

Il Borromini maturo, dunque, era un architetto in grado non solo di progettare opere di stupefacente complessità e bellezza, ma di controllare l’intero processo di costruzione. Processo al quale presenziava in continuazione dando indicazioni ai capimastri e ai lavoratori e, addirittura, quando constatava che le cose non erano state fatte come intendeva, intervenendo personalmente finanche nelle fasi più “umili”.

  Tutta questa iperattività, questo essere presente, questo non rilassarsi mai è tipico di alcune personalità tendenti alla depressione. Il genio, abbiamo accennato in apertura, frequentemente è saturnino, incline alla melanconia. Il suo iperattivismo innovativo e visionario, possiamo asserire, si pone ad argine dello stato depresso, in arrivo o già insediato, e cerca di contenerlo. Come tutti gli innovatori, anche Francesco si attira il biasimo, se non proprio la rabbia, dei suoi contemporanei architetti più ortodossi. Alcuni lo descrivono così: «Infamia del nostro secolo, è un maestro nell’arte di distruggere, manca d’ogni grazia sociale, la sua arte è frutto d’un delirio, delle più inconcepibili fantasie.». Francesco commenta, ammonendo i lettori nella breve comunicazione del suo Opus Architectonicum scritto da Francesco Spada a metà del Seicento su sua stessa ispirazione e pubblicato nel 1725: «(…) pregoli ricordarsi, quando talvolta gli paia che io mi allontani dai comuni disegni di quello che diceva Michelangelo prencipe degli architetti, che chi segue altri non gli va mai innanzi.». Ed ancora: «Ed io al certo non mi sarei posto in questa professione col fine d’esser solo copista (…) nell’inventar cose nuove non si può ricevere il frutto della fatica se non tardi; siccome non lo ricevette lo stesso Michelangelo, quando nel riformare la grande architettura della basilica di San Pietro veniva lacerato per le nuove forme ed ornati, che da’ suoi emuli venivano censurate, a segno che procurarono più volte di farlo privare della carica di architetto di San Pietro, ma indarno: e il tempo poi ha chiarito che tutte le cose sue sono state reputate degne d’imitazione e d’ammirazione. E Dio vi salvi.». (in Lonzi, M., 2006, pag.12). Gli si può leggere facilmente nel pensiero e possiamo immaginarlo parlare a se stesso nella solitudine del suo studio: “Ma sarò io a trovare nuove soluzioni e a sconvolgere a mio modo palazzi, chiese, cupole e basiliche.”.

 

 

Carl Gustav Jung

 

Francesco Borromini, studiando la sua vita e seguendo la suddivisione delle personalità che compie Carl Gustav Jung nel monumentale scritto Tipi psicologici, era un intellettuale introvertito di tipo attivo.

In questo saggio, Jung tenta di sistematizzare la modalità d'azione della coscienza a livello pratico e di spiegare come mai essa agisca in maniera differente nei vari individui. In tale lavoro, lo psichiatra svizzero fa spesso ricorso allo studio del pensiero religioso e filosofico a partire dal protocristianesimo di Tertulliano e Origene, passando per Friederick von Schiller, Johann Wolfgang Goethe, Immanuel Kant fino ad arrivare a William James.

   Nel corpus teorico di Jung sono delineati due atteggiamenti di base che corrispondono al modo di porsi dell'individuo nei confronti di se stesso e della realtà esterna:

 

1) l'introversione

2) l'estroversione.

  

L'introversione distingue la personalità caratterizzata dall'accentramento degli interessi su se stessa, da una scarsa socializzazione, da un’accentuata attività di pensiero, da umore stabile, anche se incline alla depressione. L'introversione viene suddivisa da Jung in due ulteriori categorie:

 

a) introversione attiva;

 

b) introversione passiva.

 

   Nell'area dell'introversione attiva gli individui tendono all'isolamento e dirigono la libido - intesa in senso junghiano e quindi scevra da un intendimento prettamente sessuale - per lo più verso l'interno; gli individui dell'area dell'introversione passiva, invece, non sono più in grado di oggettivizzare la libido, cioè investire l'energia psichica sulle persone, sulle cose e sui progetti. E' proprio a causa di queste caratteristiche che gli introversi hanno problemi di socializzazione e di comunicazione interpersonale.

 

L'estroversione, invece, caratterizza gli individui dotati di una maggior capacità di contatti umani, con spiccati interessi verso l'esterno e con una tendenza a non celare il proprio stato d'animo. Anche per l'estroversione esistono due ulteriori categorie:

 

a) l'estroversione attiva;

 

b) l'estroversione passiva.

 

   Nell'area dell'estroversione attiva è in genere il soggetto che volontariamente volge la libido sugli altri, mentre nell'area dell’estroversione passiva il soggetto fa in modo di far confluire la libido degli altri su sé, anche contro la sua volontà cosciente. 

 

 

 

Uno schema dei tipi psicologici descritti da Jung

 

   Secondo Jung le proprietà della coscienza sono quattro e seguono il prevalere delle quattro funzioni principali della vita psichica che, sempre secondo il suo ulteriore sviluppo di pensiero, si suddividono in due coppie, una razionale e l'altra irrazionale:

 

 

-  pensiero           {      coppia

- sentimento        {      razionale

 

-  sensazione       {       coppia

-  intuizione        {       irrazionale

 

 

    Nell'area razionale, il pensiero svolge la funzione psichica che determina il nesso tra i contenuti in gioco. Il sentimento svolge, invece, la funzione psichica che determina il contatto tra l'Io e il contenuto in questione, conferendo allo stesso contenuto una valenza che stabilirà i termini dell'accettazione o del rifiuto.

   Passando all'area irrazionale definiremo la sensazione come la funzione che permette di leggere la realtà mediante i recettori sensoriali (da non confondersi con il sentimento!). Essa permette la relazione tra l'Io e la realtà concreta, mentre l'intuizione rappresenta la funzione mediante la quale possono avvenire percezioni in via inconscia.  Nell'intuizione, il contenuto dato si presenta come un tutto; non è data, però, la possibilità di comprendere come esso si sia potuto realizzare. Le intuizioni sono comprensioni immediate di contenuti di qualsiasi genere.

  In ogni singola persona risulta predominante una delle quattro funzioni rispetto alle altre e tale funzione predominante è da Jung chiamatasuperioreoprimaria. Questa apparterrà a una delle due coppie sopra citate (razionale o irrazionale). La funzioneausiliaria sarà, invece, una funzione a complemento di quella primaria, ma che apparterrà alla coppia opposta. Per esempio: una persona in cui la funzione primaria è l'intuizione (coppia irrazionale) potrà avere come funzione ausiliaria il pensiero (coppia razionale).

In tal modo, sulla base dei due atteggiamenti (estroverso ed introverso), delle quattro funzioni (pensiero, sentimento, sensazione e intuizione) e delle due coppie (razionale ed irrazionale) si possono ricavare sedici tipi psicologici fondamentali.

   Rimanendo nella coppia d'appartenenza della funzione superiore, Jung ha notato come l'altra componente della coppia, che lui definisce funzione inferiore, sia quella che procura i maggiori disagi alla persona. Cercherò di rendere più chiaro il tutto. Una persona la cui funzione superiore è l'intuizione avrà problemi con l'altra componente della coppia irrazionale, cioè la sensazione. Tuttavia, sebbene la funzione inferiore possa rappresentare un settore problematico della coscienza per la persona, essa - una volta integrata - può invece rivelare grandi capacità di trasformazione. Concretizzare l'integrazione della funzione inferiore è il passo fondamentale del processo d'individuazione perché tale integrazione porterà a completezza la personalità, rendendola intera.

È facilmente decodificabile quanto alla base del sistema dei tipi psicologici ci sia la convinzione junghiana che la mente umana funzioni sul principio della teoria degli opposti. Le quattro funzioni della coscienza, secondo Jung, si fondano su di una base biofisiologica, con l'Io in grado di controllare soltanto una parte della psiche; dunque, pur avendo la possibilità di un certo libero arbitrio, l'individuo viene a scontrarsi presto con i suoi limiti poiché essi sono di natura innata.

Tutte e quattro le funzioni sono alla base costitutiva della psiche cosciente e dell'Io; può verificarsi, però, che una delle quattro funzioni prenda il sopravvento sulle altre, rendendone, così, difficile l'integrazione, relegandole ad una situazione ipotrofica e ponendo una seria ipoteca sullo sviluppo armonico di tutta la stessa psiche. Ed è proprio quello che, secondo il mio modesto parere, è avvenuto nella psiche “abbandonica” di Francesco Borromini, intellettuale introvertito attivo. Egli, la cui funzione superiore era il pensiero, ha avuto gravi problemi dalla mancata o ottimale integrazione della sua funzione inferiore, il sentimento: la funzione psichica che stabilisce la relazione tra la razionalità e i contenuti del contatto. Non avendo integrato bene la sua funzione inferiore del sentimento si è trovato spesso a doversi confrontare con il rifiuto (sia da parte sua sia da parte degli altri) nei contatti umani. In effetti, resta celibe e si vota ad una religiosissima castità. Le teorie sulla sua omosessualità, asserite forse con un po’ troppa superficialità anche dal critico d’arte Waldemar Januszczak, non mi trovano d’accordo. Il rifiuto è una costante nella vita di Francesco Borromini, costante che torna sempre, anche quando sembra che il successo e il riconoscimento gli siano giunti finalmente e in modo duraturo. Un rifiuto che, in un momento di grave sconforto, provato dall’ansia e dall’iperattivismo di pensiero per i suoi progetti, esorcismo alla malinconia che non lo faceva letteralmente dormire da giorni, lo porta a rinunciare alla vita, gettandosi sulla sua stessa spada.

 

 

Lo psicoanalista magiaro-americano Michael Balint

 

Doversi allontanare dall’alveo affettivo famigliare in giovane età, e soprattutto dalle accortezze e dalla premurosa presenza materna, lascia un vuoto di fondo (Michael Balint lo definisce basic fault) che consegnerà ad una sofferenza psicologica tipicamente melanconica (Balint, M., 1968). La risposta a questo dolore può essere di specie oltremodo creativa, se accettiamo che la creatività, come sostenuto in apertura, è una delle più efficaci risposte alla sofferenza del vivere. La conferma al proprio valore umano è data dal riconoscimento che solo l’amore più incondizionato delle figure primarie può donare. Una carenza, anche larvata, di questo amore facilita la formazione di una disistima del sé che spingerà a cercare continuamente conferme alla propria considerazione. Senza amore non si vale nulla e allora spesso la risposta è dimostrare il contrario, passando attraverso l’essere molto validi, per attirare quanto più amore e conferme possibili all’Io. È un uroboro, un serpente che divora se stesso partendo dalla coda. E se qualcuno mette in dubbio il valore del disistimato egli non lo tollera e reagisce con veemenza, con difficoltà a controllarsi, perché quel qualcuno tocca un punctum dolens che lo fa molto soffrire; un grilletto emotivo pronto a scattare, a volte anche con conseguenze catastrofiche. Questo è successo continuamente nella vita di Francesco Borromini.

Francesco, era un uomo chiuso in se stesso, scontroso, asociale con gran difficoltà a sapersi relazionare con gli altri, tanto da non prendere moglie, a non avere molti amici (uno dei pochi a stimarlo, ad imporlo alle committenze e a difenderlo, anche quando le cose andavano decisamente male, era padre Virgilio Spada della confraternita romana dei Filippini della Chiesa Nuova).

 

 

Padre Virgilio Spada, amico e protettore di Borromini

 

Di conseguenza trovava conforto nella religione, nell’amore “incondizionato” di Dio, unico amore vero che non lo avrebbe mai abbandonato, che non avrebbe mai potuto perdere. Francesco era un cattolico fervido e credente. In epoca controriformistica, soprattutto a Roma, non è un caso che molti artisti lo fossero.

 

 

La fase finale del Concilio di Trento (Nicolò Dorigatti)

 

Nel bene o nel male, la chiesa cattolica, per necessità più che per virtù, si è sempre posta come uno dei più grandi impulsi all’arte; nel periodo storico artistico in cui vive Borromini, il barocco, più che mai. Il concilio di Trento, la risposta cattolica al luteranesimo, stabilisce le nuove “linee guida” del cattolicesimo; lo fa non senza difficoltà, però, dura diciannove anni, dal 1545 al 1563 e vede scorrere il pontificato di tre papi. La chiesa romana per far sì che la sua comunicazione religiosa arrivi chiara e “leggibile” al popolo dei fedeli, usa l’arte come viatico, come rappresentazione della sua indiscutibile verità. Se avesse avuto la possibilità di usare la radio, la televisione o il cinema l’avrebbe fatto. Oggi lo fa: le emittenti vaticane sono le più potenti del mondo. Il protestantesimo no, perché è contrario all’idolatria dei santi e delle loro rappresentazioni e sancisce per questo il peccato di iconoclastia. Amare l’intercessione presso l’amore divino crea la distorsione del potere, ciò che Martin Lutero avversa fortemente. Fu per questo che appese le 95 tesi contro il mercimonio delle indulgenze sulla porta principale della Schlosskirche di Wittenberg.

 

 

Sezione della chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, a Roma

 

Orbene, l’architettura dell’anticonformista e solitario Borromini parte sempre da planimetrie incredibilmente geometriche e razionali per poi giungere allo scompiglio di esse attraverso il movimento di convessità, concavità, anche linee rette, ma a contrasto. La sua arte è realizzata da una competenza logica fuori discussione, eppure anche emotiva, che inizia da un infinito per giungere ad un altro infinito. Un ponte con i suoi appoggi sospesi nell'incommensurabile. Le lanterne poste sulle cupole delle sue chiese, tanto vituperate dai suoi detrattori contemporanei, servono sì ad illuminare l’interno, ma sono caratterizzate all'esterno da ascensioni elicoidali, a spirale; perché?

 

 

Sant’Ivo alla Sapienza – disegno della lanterna elicoidale della cupola

 

È solo una soluzione tecnica? Perché non fare le salite ad angolo, con una torre a parallelepipedo, tra l’altro, credo, più facili da costruire? Io sono convinto che Borromini le realizzi proprio perché la forma elicoidale delle ascese è una spirale. Egli si sente a suo agio con la forma della spirale. Si sa che ha raccolto conchiglie per tutta la sua esistenza. Nell’inventario dei suoi beni, alla sua morte, è catalogata una grossa conchiglia «montata su un piedistallo a forma di artiglio d’aquila». (Connors J., 2000)

 

 

La forma a spirale della nostra galassia, la Via Lattea

 

Da sempre, in ogni cultura religioso-fideistica, la spirale è un simbolo dell’infinito. La tecnologia dei telescopi spaziali più moderni (Hubble) messi a disposizione della fisica astronomica ci consegna immagini sbalorditive del nostro cosmo. Sembra che l’universo sia cominciato con un’inimmaginabile esplosione quale risposta alla concentrazione parossistica della gravità in un solo punto. Una deflagrazione di cui si percepisce ancora il rumore. Nel 1964 Arno Penzias e Robert Woodrow lo scoprono e lo chiamano radiazione cosmica di fondo (in acronimo anglofono CMBR) e per questo ricevono il Nobel nel 1978. La nostra galassia è una spirale con un buco nero al centro che sembra attiri qualsiasi cosa entri nel suo immenso campo gravitazionale. Un foro scuro dalla gravità inconcepibile, così potente che non lascia sfuggire nemmeno la luce ed è per quello che risulta totalmente buio; un luogo dalla forza di gravità così poderosa che anche lo spazio e il tempo si deformano al suo interno. Tutto ciò che orbita intorno a questo buco nero è illuminato dalla luce di numerose stelle, non è posto su un piano piatto, ma ha una disposizione che richiama vagamente la forma di una trottola. La spirale di questa immensa trottola, che è la nostra galassia, è un percorso a due vie: se la si guarda da una parte può essere destrogira, ma se la si osserva dall’altro lato ecco che cambia verso e diventa levogira. La spirale segna una percorrenza a due direzioni nel tempo infinito, dal divino all’uomo, dall’uomo al divino secondo l’intendimento religioso. Ecco perché la scelta dell’innalzamento a spirale nelle lanterne. Perché la lanterna è lo zenit della cupola. Dopo di essa c’è il firmamento, sede della “sapienza” della divinità celeste e l’ascesa elicoidale porta lì, ma da lì porta anche, inversamente, al nadir dell’umana condizione, punto d’arrivo dell’amore divino.

 

 

Roma, elicoide dello scalone di Palazzo Barberini

 

Quel amore di cui Francesco Borromini era alla costante ricerca, immerso in una condizione pauperistica voluta. Non gli interessavano i soldi, gli interessava di più poter realizzare le sue opere, così come lui le voleva realizzare. Sembra quasi di sentirlo parlare: «Ebbene sono così, ma alcuni mi riconoscono un merito: di non farmi tiranneggiare dagli interessi, di non accumulare denari per i miei eredi, anche perché i miei unici figlioli sono i miei lavori e questo mi basta».   È perciò che la sua opera architettonica stupisce e cattura all'istante le menti più preparate e sensibili: è meno distratta dagli affanni dovuti alla gestione delle somme da richiedere, da ricevere o da mantenere. La sua architettura è espressione di pura concentrazione d’arte “incontaminata”. Le forme delle chiese e delle costruzioni del Borromini esprimono un ragionamento contorto, ma calcolatissimo al contempo; sovversivo e intollerante, ma tradizionalista e amorevole; diffidente, ma generoso; emotivo, ma insieme razionale e composto; introverso, ma aperto alla realtà, specie se competitiva: proprio come la sua personalità. Tutto ciò lo consegna inesorabilmente alla sua solitudine. Ha scritto Bruno Zevi in "Attualità di Borromini" (L'architettura, cronache e storia 519, gennaio 1999): «Il caso Borromini è specifico e irripetibile: consiste nello sforzo eroico, quasi sovrumano, di effettuare una rivoluzione architettonica in un contesto sociale chiuso e indisponibile, malgrado i nuovi indirizzi della scienza. L'appiglio al tardo-antico, al gotico, a Michelangiolo non era soltanto un tentativo di legittimare l'eresia sotto una copertura di riferimenti autorevoli, ma anche un modo intimo, disperato, di cercare un interlocutore.».

Io amo molto l’architettura del Borromini. Come me, oggi, tra i tanti, anche Waldemar Januszczak e Daniel Liebeskind. Il primo, eccellente critico d’arte britannico, coglie in pieno la fede dovuta al debito d’amore che muove la creatività di Borromini. Il secondo, architetto famosissimo a livello mondiale, lo descrive come suo progettista e costruttore preferito perché riesce a percorrere un cammino che parte dal nulla per giungere al nulla realizzando, all’interno di questo percorso, il tutto. Forse lo amano molto perché anche loro, come Francesco, nascondono una cifra comune di sofferenza psicologica. Il cattolico Januszczak, figlio di due rifugiati polacchi in fuga dalla madre patria dopo la seconda guerra mondiale, resta orfano di padre ad un anno. Libeskind, anche lui polacco, d’origine ebraica naturalizzato statunitense, è figlio di due sopravvissuti all'Olocausto nazista.

Solo chi ha percepito e provato la sofferenza psicologica per un’improvvisa o assurda mancanza d’amore, ed è riuscito ad elaborarla trasformando la melanconia che ne deriva da medusa pietrificante in propellente eccezionale verso la propria realizzazione umana, può comprendere appieno l’opera d’arte del “ depresso” Borromini; arte al contempo così complessa e semplice da capire. Solo chi ha fatto sua tale consapevolezza, con un percorso di integrazione degli aspetti psichici più profondi posti alla base del suo dolore, sarà a suo agio nel ricevere il fantastico tesoro prodotto dalle amorevoli mani dell’artista “ticinese”. Gli altri potranno intuirne la grandezza e rimanere più o meno turbati dal suo genio melanconico.

 

BIBLIOGRAFIA

 

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Individuali, Raffaello Cortina, Milano

 

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Frommel (a cura di), Borromini e l’universo barocco (catalogo della mostra tenutasi a palazzo delle esposizioni a Roma nel 1999 -200) Electa, Milano, 2000, pag. 19. Il materiale è stato consultato nella versione online del saggio, disponibile su http://www.columbia.edu/~jc65/cvlinks/vita.html

 

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 1987                     Il pensiero, l'apprendimento e la memoria

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 1999                    Attualità di Borromini, L’architettura cronache e storia 519