LA MIOPIA È UNO SVAGO (PAROLA DI LALLO DE BONIS)

LA MIOPIA È UNO SVAGO

(PAROLA DI LALLO DE BONIS)

 

 

 

UN SINGOLARE RACCONTO DI NATALE di Ugo Derantolis

 

 

«Il vivente veggente, è Spinoza vestito da rivoluzionario napoletano»

 

Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-edipo, Einaudi, Torino, 1975 - Pag. 30

 

        Rivelare il pensiero di Lallo De Bonis, l’ho già affermato in svariate occasioni, è diventata la mia missione. Ho avuto in sorte, infatti, l’amicizia di questo uomo schivo, la cui mente colorata scandaglia la realtà, traendo da dettagli irrisori aperture di senso sfavillanti, e ritengo di avere il compito di estendere a più persone possibile tale privilegio. Sono consapevole, per altro, dei limiti dei miei resoconti, redatti da un modesto cronista di un’esistenza unica ed esemplare.

 

 

De Bonis è profondo e abissale (non a caso, nei circoli dei suoi ammiratori è chiamato “‘o Batòs”). Se ancora a molti il suo nome dice poco, ciò va attribuito al rifiuto che egli ha sempre manifestato verso la pubblicità e la carriera, e all'avversione che nutre nei confronti del mondo accademico.

Potremmo definire il nostro Autore (anche se temo che ciò desti la sua riprovazione) un “fenomenologo desultorio”, ovvero un essere che, ripiegato sulle proprie percezioni, ne traduce il lavoro istantaneo e subliminale spiccando salti. Salti che corrispondono ora a minimi scarti; ora a balzi vertiginosi. I movimenti debonisiani scaturiscono, dunque, una filosofia viva e immediata, simile alla fluida esperienza sondata, e, al contempo, con lo scalpello imprimono in quel flusso i caratteri di una scogliosa riflessione - frasi secche, lapidarie, sintetiche come l’intuizione stessa che le informa.

 

 

 

Fu in un gelido pomeriggio di tramontana, durante le scorse feste natalizie, che il nostro storico gruppo di amici, miracolosamente ricompostosi, si rifugiò in un affollato caffè di Piazza dei Martiri, a Napoli. Solo pochi, tra cui Lallo, abitavano ancora nella città di origine; mentre la maggior parte, disseminati dal destino in vari luoghi d’Italia, se non addirittura all’estero, erano tornati per rinsaldare l’antico amalgama. Io, che vivo a Roma, fortunatamente avevo dovuto coprire solo una breve distanza.

Sedevamo numerosi intorno a tavolini con tazze di caffè e di cioccolata, calici di liquore Strega e dorate porzioni di struffoli. Donne e uomini, tutti avevamo di che raccontare e di che domandare agli altri, chi con tono garrulo, chi serio, chi ironico, chi febbrile, chi quieto, chi ansioso. Lallo, invece, più di tutto ascoltava, da dietro le lenti, dispensandoci la mite allegria dei momenti migliori. Naturalmente, tutti volevamo sapere quali studi coltivasse negli ultimi tempi, visto che egli non desiderava scriverne, né parlarne con il compiacimento degli intellettuali di professione. Fu proprio la mia insistenza a vincerne la ritrosia. Tutti allora tacquero mentre lui, con la potenza tipica delle grandi menti, snocciolò uno scarno resoconto; e le sue parole, con disinvoltura quasi neghittosa, c’introdussero di colpo a uno dei più favolosi e terrifici misteri della vita.

«Per l’Immacolata, mia sorella mi ha invitato a casa sua. Come tutti gli anni, io ho aiutato mio cognato a preparare il presepio, mentre Cettina e mia nipote Simonetta - bella di zio - addobbavano l’albero. All’ora di cena, sono rientrati anche i due nipoti maschi con le fidanzate. Abbiamo mangiato (troppo, come succede in queste occasioni) e chiacchierato. Infine, io mi sono seduto in disparte, a osservare l’abete carico di palle brillanti, di figurine pendenti, di festoni, di lucine rosse, verdi, bianche, gialle, azzurre. La digestione procedeva pigra e un bicchierino di whiskey, con un bel sigaro cubano, era l’ottimo rimedio che avevo scovato per agevolarla. Al culmine del rilassamento, o forse dell’obnubilamento, mi sono tolto gli occhiali e ho cominciato a seguire il ritmo di quelle lucine. È stato allora che ho capito che la miopia è uno svago».

Lallo non volle aggiungere altro. Un lieve sorriso beato, simile a quello dell’Apollo di Veio, però gli aleggiò ancora a lungo sul viso. Già il suo sguardo si era sollevato da noi per ripercorrere il corso delle fantasmagoriche visioni appena richiamate, visioni che solo riaccompagnandolo a casa ebbi modo di apprendere in dettaglio. Tutti noi, al momento, restammo, invece, interdetti, non sapendo decifrare a pieno l’ultima suggestiva affermazione: “la miopia è uno svago”. Di fatti, ognuno sapeva che De Bonis, ludicamente, sempre enunciava pregnanti verità sulla natura umana. Senza che lui interferisse in alcun modo, discutemmo le nostre ipotesi fino al momento dei saluti. Poi, io accompagnai a casa l’amico, carpendogli a poco a poco le informazioni utili alla congettura che in queste pagine vi sottopongo.

 

 

 

Mentre raggiungevamo la funicolare di Piazza Amedeo seppi che, a causa delle diottrie, l’albero di Natale si era trasformato in un ammasso grossolano di materia scura, nel quale sprofondavano indistintamente tutti gli addobbi. A bordo della funicolare scoprii che le luci erano inizialmente sembrate a Lallo cristalli di ghiaccio policromi, che sparivano e riapparivano in zone diverse del campo visivo. Giunti a Piazzetta Fuga, mentre il vento si abbatteva sibilando sui nostri baveri, sollevava le spire delle sciarpe e quasi ci svelleva i berretti dal capo, ottenni l’ultima fatidica rivelazione; con un cambio repentino da figura a sfondo, una nuova immagine, assai più inquietante delle regolari geometrie dei cristalli, si era imposta alla sua vista intorpidita: uno sciame di cimici elettriche aggrediva l’albero, trapanandolo, polverizzandolo, svuotandolo della sostanza materiale, come un cadavere sottoposto a un assalto freddo, ossessivo, psichedelicamente letale.

Con Lallo ci congedammo davanti al portone della sua abitazione e io, ombra tra le ombre d’infreddoliti passanti, proseguii fino alla vecchia casa di famiglia. Il racconto debonisiano continuava a tarlarmi il cervello, distraendomi dalle abituali conversazioni con i parenti, togliendomi l’appetito, crescendo in me, opprimendomi. Finché non sopravvenne l’insight: il maestro partenopeo aveva smascherato in un sol colpo il recondito problema dell’occidente cristiano, ne aveva evidenziato il più segreto vulnus!

Narrando la sua squassante illusione percettiva, De Bonis ci indicava,  infatti, l’insidia legata alla tradizionale interpretazione della nascita di Cristo: il Natale quale avvento di un eroe solare (le luci elettriche), capace di trionfare in forma assoluta e definitiva sull’Ade pagano. Ribadire tale concezione avrebbe avvelenato nuovamente i pozzi della profondità psichica, riproponendo la demonizzazione del mondo infero. E che altro avrebbe comportato ripetere questo vieto errore? È ovvio: il perturbante ricomparire della morte proprio laddove si cercava di celebrarne la massima sconfitta (la cupa vegetazione dell’abete ridotta a cumulo di materia informe - cioè, a cadavere). Ecco perché, suggeriva in ultimo il filosofo di Via Belvedere, la paciosa simmetria dei cristalli colorati aveva presto ceduto il campo alla sgretolante sinfonia delle cimici elettriche, autentica manifestazione delle legioni diaboliche, molteplici, potenti, impersonali.

Mio benevolo lettore, la riflessione testé propostati lascia soltanto intuire lo spessore ermeneutico del racconto di Lallo De Bonis, i cui risvolti restano innumerevoli e innumerati. Eppure, sono lieto di averti potuto tramandare un altro dei suoi testi, così succinto, così sublime, così profondo.