LE VERITÀ DI LALLO DE BONIS

LE VERITÀ DI LALLO DE BONIS 

   

      di Ugo Derantolis

     In futuro l’Archeologia sarà un’altra scienza: non esumerà le vestigia del passato, ma  setaccerà il mare infinito di segni del nostro presente, per estrarne qualcosa di veramente  significativo. Mi aspetto che, allora, venga riconosciuto il geniale lavoro di Lallo De Bonis e,  per essere stato io il suo modesto apologeta, anche il mio nome si salvi dall’oblio.  

 

 

 

 

 

 

 

 

Lallo De Bonis, uomo di profondità

 

 

        Il diminutivo “Lallo” è forse l’unico vezzo di un uomo sobrio, schivo e in guerra con la notorietà. A coloro che, dietro un sorriso, gli chiedono se il nome derivi da Raffaele, da Luigi o da qualsiasi altro santo, imperturbabile, racconta due versioni: la prima prevede che quello sia il suo nome di battesimo; la seconda è variabile. A volte, infatti, rivela che fu suo nonno a impartirglielo dopo averlo sentito emettere i primi borbottii di lattante; altre che fu suo padre, in memoria di un cugino emigrato in Brasile e poi scomparso; altre che sia stata sua madre ad imporglielo, quando, anzianissima e preda della demenza, lo scambiava puntualmente per il suo primo fidanzato; altre ancora che lo aveva scelto lui stesso, durante una breve ma intensa stagione dadaista, senza avere in seguito più cuore di rinnegare quella decisione. Cito così soltanto minimi esempi del gusto pervasivo per il mito che caratterizzano Lallo De Bonis e che contrastano con la sua figura fisica anonima, affetta da un monocromatismo quasi irritante nella scelta del vestiario, da una propensione per i colori sbiaditi e per i tagli anodini che sembra ribadirne l’incessante volontà di mimetizzarsi, colando sul fondo della realtà.

 

        Chi, come me, frequenta da tempo De Bonis ha modo di sondarne a ogni occasione l’erudizione bizzarra, il gusto per la stravaganza, l’incessante rifiuto di quella sistematicità che la padronanza di una disciplina scientifica o umanistica necessariamente richiede. Parrebbe, a una prima scorsa, che De Bonis sia oppresso da una certo terror panico, quando si tratta di consegnarsi completamente a una passione. La sua vita, piuttosto esigua sul piano sentimentale, lo confermerebbe. Eppure questa è soltanto un’impressione superficiale, che subito decade quando si considera quanta anima quest’uomo docile e misurato profonde nel suo vagare attraverso ogni cosa gli capiti a tiro, per tendere a un centro che è soltanto suo personale! La realtà tutta pare diventare allora in lui preambolo, se non proprio scusa, per raggiungere una verità immanente. Lallo la insegue come un’amata sfuggente, o, cambiando punto di vista, ne viene divorato, come se  fosse preda di un’amante possessiva e gelosa. 

 

        L’unico modo per trasmettere alcuni baluginii di questa vita interiore consiste nell'afferrare al volo, prima che si perdano, i foglietti di carta che Lallo scarabocchia, mentre fissa qualche anello delle sue lunghe concatenazioni mentali – appunti che poi accartoccia e getta via con assoluta noncuranza -, oppure annotare il più fedelmente possibile stralci delle sue conversazioni estemporanee. Lallo non si ribella a questi piccoli furti, anche se li deride. D’altronde, ogni insistenza, da parte mia e degli altri amici, per indurlo a  scrivere un libro, o anche soltanto per concedere una intervista, si è infranta contro un muro d’ironia e risentimento.

 

        Ora desidero rilanciare un aforisma che De Bonis pronunciò una mattina al bar, in un periodo nel quale s’era invaghito dello studio dei sistemi caotici.

 

Disse: «Ho cercato, contemporaneamente, di soffiarmi il naso e tenere ferma una mollica in fondo alla lingua, e non ci sono riuscito».

 

Forse quanto proverò a spiegare è già evidente al lettore avveduto, ma io sento, in qualunque caso, il dovere di abbozzare un’esegesi di queste parole abissali. De Bonis parla, in prima istanza, dell’impossibilità di perturbare il sistema respiratorio senza coinvolgere quello alimentare. E ciò potrebbe anche non eccitare molto la fantasia. Ma se andiamo oltre la lettura superficiale, la frase ci conduce assai più in là. Ci suggerisce che la nostra idea di controllo sugli eventi è meramente illusoria, che siamo assurdi e folli nel ritenere che quanto avviene intorno ci lasci indenni, nell'incavo di un’imperturbabile orbita lineare. Questa affermazione implica, in ultima analisi, che la nostra stessa identità è il frutto di un’interazione ininterrotta con le altre identità, differenti sì ma interdipendenti, e che dunque le emozioni e i pensieri di cui ci nutriamo, anche nella loro forme più infinitesimali (la mollica), sono influenzati dalle correnti spirituali (il soffiarsi il naso) che sferzano il mondo. Esse giungono alla nostra coscienza, però, attraverso una serie insondabile ed eccedente di concomitanze frammentarie, sicché la coscienza si mostra quasi sempre incapace di decifrarle.

 

Lallo espresse, dunque, quel giorno una metonimia che riecheggiava lo stesso funzionamento dell’essere umano in quanto elemento della natura, lo stagliarsi in lui dell'Aleph, la ripercussione del divenire cosmico in un qualunque luogo, in un qualsiasi istante.