L’ENERGIA DELL’INTERPRETE

L’ENERGIA DELL’INTERPRETE

Gabriele Lavia legge le favole di Oscar Wilde al teatro Vascello di Roma

 

Gabriele Lavia (foto di Filippo Milani)

 

        Recensione e foto di Flavia Incitti

 

Riapre il teatro Vascello con lo spettacolo di Gabriele Lavia che interpreta due delle favole di Oscar Wilde: Il razzo eccezionale e Il principe felice.

 

 

Gabriele Lavia interpreta Il razzo eccezionale

 

Il grande attore ci conduce nella follia megalomane del razzo “ragguardevole”, come egli lo traduce, attraverso i suoi soliloqui intimi e i dialoghi con gli altri personaggi: fuochi d’artificio, animali e bambini. Ma il razzo vuole essere ricordato nel suo splendore; sa che la sua “utilità” consiste nella bellezza della sua ascesa al cielo per concludersi in una luminosa e dorata esplosione. Ma quale sia il vero scopo del suo essere per gli altri, il suo potenziale (ενέργεια, l’“energeia” aristotelica), questo non gli è riconosciuto da nessuno.

 

Passa le giornate a spiegare quale sia il suo ergon, il lavoro che un giorno metterà al servizio della famiglia reale. Esalta il suo potenziale con una retorica vuota, amplificata con i gesti fino a raggiungere l’ultima fila. La voce di Lavia si espande in tutta la sala, cadendo nel vuoto dell’inazione. È assente l’azione, che rispecchia il personaggio mentre inesorabilmente affonda nella melma, così come l’attore affonda in un unico quadrato di palco ritagliato col bianco delle luci. Ma entrambi, attore e personaggio, ne escono. Ma mentre l’ascesa di Lavia è visibile e conduce gli spettatori a un’ulteriore favola, al razzo non è concesso un pubblico nel momento che ha atteso per tutta la vita: la sua spettacolare esplosione, infatti, si consuma in un cielo solitario.

L’interprete, invece, si libra nello stesso cielo con le ali della rondine che incontra Il principe felice. Lei inizialmente desidera soltanto migrare verso i luoghi caldi della terra e chiacchierare con le sue amiche delle nuove terre esplorate, almeno fin quando non incontra il principe divenuto statua. Lui è costretto, ormai, all’osservazione fisicamente passiva della vita, ma sul piano psicologo e spirituale si muove libero nell’universo intero. In modo indiretto, e nonostante l’iniziale inconsapevolezza della rondine, il principe riesce a mostrarle che, donare tutto ciò che si ha per dare sollievo alle vite di esseri caduti in disgrazia, è un sacrificio “felice”.  

La statua del principe emerge carica di passioni pulsanti grazie ai toni caldi e cupi del recitante: le vibrazioni della sua voce sembrano muoversi attorno alle poltrone della sala. Tutto si muove, nonostante l’apparente fissità dell’azione.

Si evolve così un’emozione che, per il razzo, è diretta unicamente a se stesso, e che esplode nel medesimo cielo in cui il cuore della rondine è guidato dalla generosità del principe, ormai un guardiano silenzioso della terra.

 

Nella prefazione al suo romanzo, Pierre e Jean, Guy de Maupassant, descrive l’ignoto come l’essenza più primordiale:

 

«In tutto c’è qualcosa di inesplorato, perché siamo abituati a servirci dei nostri occhi solo con il ricordo di quanto è stato pensato prima di noi su quello che stiamo contemplando. La cosa più insignificante contiene un po’ d’ignoto. Troviamolo»

 

Come se avesse preso ispirazione da questo meraviglioso e potente pensiero, Lavia ci strappa sorrisi e, allo stesso modo, lacrime. La commozione che pervade il teatro non solo viene dal sentirci nuovamente, dopo lungo tempo, uniti in questo luogo sacro, ma soprattutto dall’essere unanimi rispetto all’ignoto che si cela in quei personaggi, alle idee che li ossessionano e ai sentimenti che li guidano.

In una riflessione offerta agli spettatori, ai margini dello spettacolo, Lavia si interroga su cosa si intenda per recitazione e quale sia l’utilità del teatro:  

 

«Recitare vuol dire citare, nel già citato, qualcosa che ancora non è stato citato. E che cosa non è ancora stato citato, in qualcosa di già citato che si debba recitare? Il recitatore…»

 

Dunque l’interprete è l’innovazione che schiude, nello spettacolo, a quell’ignoto di cui parla Maupassant. Ritornare in scena attraverso l’immaginario di questo grande scrittore significa, come afferma lui stesso, fare una citazione che ha sempre un nuovo suono, una nuova forma, a seconda di chi e di come le si dia voce. Riconoscersi è la parola che Lavia evoca, perché la magia del palco fa da specchio agli uomini, uno specchio nel quale “riflettersi” e “ritrovarsi” attraverso la figura dell’Altro.

 

«L’actor nel suo actus è en con l’ergon: è “Uno con l’opera”. Le mie parole sono uno con le parole di Amleto, Edipo... […] È ovvio che li ho già visti, però mi piacciono lo stesso. Perché? Perché sono nuovi, sono actualitas, sono energon: io sono lì con loro, e quindi sempre nuovo… Anche l’amore l’abbiamo già fatto, ma non per questo io dico “ma no, l’ho già fatto, so com’è…»

 

 

Gabriele Lavia recita Il principe felice

 

Così le braccia di Lavia si dispiegano come quelle della rondine fino a diventare “Uno con l’opera” di Wilde.