SCANNASURICE: LUCI E OMBRE DELL’ANIMA DEGLI ULTIMI

SCANNASURICE: LUCI E OMBRE DELL’ANIMA DEGLI ULTIMI

 

 

Imma Villa in Scannasurice, foto di Andrea Falasconi

 

di Enzo Moscato


Regia Carlo Cerciello
Con Imma Villa

Scene Roberto Crea
Costumi Daniela Ciancio
Suono Hubert Westkemper
Musiche originali Paolo Coletta
Disegno luci Cesare Accetta

Produzione Elledieffe, Teatro Elicantropo

 

 Teatro Vascello

Via Giacinto Carini, 78 Roma

dal 20 al 25 ottobre 2020

 

 

  Recensione e foto di Assunta Alfieri

        

 Al Teatro Vascello di Roma è andato in scena Scannasurice, interpretato da una magistrale e intensa Imma Villa, guidata dalla precisa regia di Carlo Cerciello. Il testo scritto da Enzo Moscato nel 1982 è un testo vivido, feroce, diretto, che sul palco grida la condizione dolorosa e disperata dei Quartieri Spagnoli della Napoli del 1980, colpita dal terremoto dell’Irpinia. Moscato dichiarò infatti «ecco, io con Sсannasuriсe vedevo е percepivo le ferite, le faglie, le fratture dei nostri animi con lo stato precedente della vita e la cultura a Napoli». E a dare corpo e voce all’anima di quella città ferita che tenta di respirare e svincolarsi da un mondo vieto, in rovina, “che cade a pezzi”, l’urlo più forte è quello degli “ultimi”, di cui si fa portavoce l’intenso personaggio Scannasurice.

 

 

 

 

 

Imma Villa interpreta sola, con grande realismo, i panni di un “femminiello” per dirlo nel gergo della cultura popolare partenopea, una figura ambigua, doppia, con un linguaggio alternatamente tragicomico e un ritmo delle parole che corrono veloci, quasi fossero una tarantella. I monologhi, al di là dell’aspetto comico e grottesco, sono carichi di tratti dolenti e perciò quasi deliranti nell’esprimere la disperazione di Scannasurice: assumono il tono agrodolce della stessa vita e questo serve a condurre sempre di più lo spettatore nel buio della condizione esistenziale e identitaria del personaggio.

 

 

 

Sul palco, la casa in cui vive Scannasurice diventa una casa-“tavuto”[1], una casa-cimitero, un luogo infero dove sparisce il confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti, tra realtà e fantasmi. Lo scenario a tre piani ricorda i loculi di un cimitero, uno spazio angusto, che dà vita e morte, accoglienza e disperazione di un’esistenza claustrofobica e asfissiante. Il corpo di Scannasurice è un corpo costretto a piegarsi, districarsi su quei tre livelli, in un incessante movimento, a scivolare su e giù da cubicoli, a strisciare, arrampicarsi, accucciarsi, sporcarsi e star scomodo.

 

 

 

Questo sopravvivere simbolizza l’essere con i topi- con cui coabita- e come i topi (“e surc”): allegoria degli ultimi, dei miserabili, dei vinti.  Il personaggio tocca il fondo ma è pronto a reclamare la sua dignità perché come lui stesso dice «i topi sono proprio una razza, con qualcosa ereditata dalle anguille e qualcosa dai capitoni» e in quanto tali, rivendicano anche loro una sorta di supremazia.

Se da una parte Scannasurice nutre i topi e dialoga con loro, dall’altro è sfinito dal parassitismo di queste creature, dunque dalla propria stessa infima condizione. Non a caso il suo nome è Scannasurice, “colui che scanna i topi” e con una spada, che a un certo punto mostra in scena tra i vari “bom bom” del terremoto e crolli della casa e della sua anima, dice che sarebbe pronto a ammazzarli tutti. Spada che, una volta capovolta diventa la stessa croce a cui si sente inchiodato.

 

 

 

Scannasurice racconta oltre i lamenti e il dolore, anche storie di suicidi e di fantasmi, leggende legate al popolo partenopeo come a voler ricordare nelle sue origini la sua forza identitaria. Descrive un mondo “graziato” e disgraziato, storie di persone che si sono salvate e sono sopravvissute alla morte per mano di un intervento divino.

 

 

 

La stessa sacralità in cui convivono distruttività e provvidenza, la incarna Scannasurice vestendo i panni di un’improbabile Vergine che appare nella cornice di un’edicola illuminata. È la metafora del divino che può dare morte e salvezza dosando con precisione millimetrica le gocce di curaro, veleno che metterebbe fine alla vita dei topi e che gioverebbe a quella di Scannasurice come liberazione dalla sua intollerabile condizione.

La fatica e l’affanno della vita del personaggio irrompono sulla scena con più prepotenza e feroce intensità verso la fine dello spettacolo, quando gli occhi di Scannasurice diventano più languidi sul suo volto di cera pallido e malinconico, che ricorda quello di un Pierrot innamorato della vita, ma di una vita che gli è amara e crudele.

 

 

 

Sul ciglio del marciapiede Scannasurice batte con calze a rete, tacchi e una pelliccia rossa, ricordando con dolore, disprezzo e tristezza, sia a sé stesso e al pubblico, che in fondo questa vita per lui “è un orologio che va sempre avanti” mentre desidererebbe che si fermasse una volta e per tutte.

Lo esasperano il disconoscimento, l’assenza dello sguardo dell’altro e la mancanza d’amore, ma trova proprio in quest’ultimo, però, un conforto caldo e luminoso. È l’amore che lo tiene in vita, la passione da prendere e dare agli altri.

 

 

 

È un bellissimo lampo di luce sulla scena, il momento in cui Scannasurice diventa tenero e felice, sotto le note di una delicata Madama Butterfly, aprendo un grazioso ombrellino bianco e ricordando il suo desiderio di essere amato da uno studente che vive di fronte il suo palazzo. Il ritmo di questo momento è calmo, lento, il personaggio si illumina di sorrisi e si scioglie in un inno, quasi una preghiera, al voler essere visto e amato, così come lui stesso ama, questo ragazzo. Un giorno dal balcone si sente dire “se tu fossi stata una vera donna mi saresti piaciuta” e Scannasurice, invece, riflette su come lui lo amerebbe; “che ci sia il sole o la piaggia, tu mi piaceresti sempre” dice. E il finale di questo meraviglioso monologo non può che culminare con la bellissima frase che chiude tutto il cerchio dell’esistenza di Scannasurice, oltre la sua amarezza: “e tu potresti … amarmi perfino!”.

Pertanto, prima che cali il sipario sullo spettacolo e sull’asfissiante condizione di Scannasurice, ciò che veramente resta di Scannasurice è quella musica dell'amore che illumina il buio dell’anima e dell’esistenza.

 

 

 


[1] Nella lingua napoletana, “o’ tavut” è letteralmente “la bara”. Il termine deriva dallo spagnolo ataud, a sua volta mutuato dall’arabo andalusino attabút, a sua volta derivato dall’arabo classico at-tābūt.