VIAGGIO AL CENTRO DI UNA TERRA IGNOTA- PARTE SECONDA

 

 

 

VIAGGIO AL CENTRO DI UNA TERRA IGNOTA

Il simbolo Covid, innesto imprevedibile del nostro linguaggio

SECONDA PARTE

 

 

 

        di Federica Bassetti

 

 

 

Volevamo essere capaci di tutto, siamo stati messi in grado di operare con la tecnologia quello che anni fa non si poteva immaginare ed ora, sospeso il reale, le piattaforme educative hanno funzionato, funzionano gli aperitivi su Skype, le video chiamate di gruppo tra bambini, lo “smartworking” (che si potrebbe chiamare semplicemente “lavoro da casa”), le compere, le consulenze e le visite mediatiche nei monumenti più rari. 

 

 

 

 

 

Inevitabilmente il nostro linguaggio familiare, scolastico, economico sta cambiando: il fondo mitico del Logos si fa incerto, da lì però trae alimento la cultura, e per cultura si intende anche la sua forma popolare e dialettistica, tanto cara a Pasolini - la lingua madre già sclerotizzata negli anni 70 davanti agli occhi afflitti del grande poeta friulano, dal freddo e inglesizzato codice tecno-aziendale, che ci fa sentire da tempo un po’ tutti operai dello stesso settore. 

 

 

 

Quel fondo si sta deformando sotto i nostri piedi inconsapevoli e pesanti. Il monito di Mallarmé rivolto agli intellettuali del tempo, incapaci di vedere lo scempio omicida compiuto ai danni della mitologia del linguaggio, il terrore reale di Pasolini, anche lui volutamente decadente, di fronte alla sudditanza della cultura, espressione dello spirito di ognuno e di ogni popolo, al metro del consumo, fanno eco ancora oggi e non mentono. Sembra di essere sullo spartiacque di un passaggio per noi epocale e sostando davanti alla porta del dubbio, il mito antico, si fa strada tra i riti mediatici del nostro mondo e vacilla come vacillò il grande Zeus, quando scoprì il complotto contro ciò che gli era più caro, annientato dal gioco collettivo e persecutorio dei potenti del passato.

 

 

 

Zeus non sa dove sia finito il bambino, il suo “Bambino d’Oro”, Dioniso Zagreus, infante re dell’Olimpo. E Zeus non immagina che il bimbo prezioso, il futuro divino del mondo intero, abbia i minuti contati. Il bimbo si distrae infatti e cade in un tranello, lontano dal cuore del Padre. Lo aspetta un orribile presente, ingenuo e presago di morte, e lo aspetta in circolo. È circondato dai titani, i vecchi dei delle antiche ere, poi precipitati nello stato di giganti operai, che, sporchi di calce sul viso, e avendo tra le mani strani giocattoli sonori, hanno attirato il Futuro, così incerto di sua natura e labile nebbia agli occhi del Presente, accerchiandolo per fermarlo, ucciderlo, sbranarlo e divorarlo.

 

 

 

 Il Futuro era nelle nostre mani di bambini quando giocavamo all'aria aperta e non avevamo né cellulari, né Internet né social, né altri impiccioni che potessero consigliarci o guidarci nel gioco.

La vittima veniva bendata e messa in mezzo al circolo dei carnefici, poi fatta girare in modo che potesse confondersi, perdere la cognizione del luogo e forse del tempo. Quando aveva la testa confusa e si trovava al buio, al cospetto dei suoi persecutori, poteva avvicinarsi lentamente a uno di loro, e con le mani protese in avanti, in cerca di contatto e sempre nella tenebra, la fortuna poteva condurla a tastare un viso, a riconoscerlo e ad annunciare a gran voce il nome corrispondente. Il testimone del capro espiatorio, la benda che aveva accecato la vittima sacrificale per tutto il tempo del gioco, passava allora all'altro che era stato indovinato.

 

 

 

Il gioco della mosca cieca è uno di quelli che ricordo con più calore, insieme alla corsa sfrenata e divertente del guerriero prescelto, che fuggiva dalla postazione avversaria per raggiungere la sua, dopo aver rubato ai nemici la bandiera.

Credo di aver sognato almeno mille volte di poter giocare di nuovo a rubabandiera, come facevo da piccola.

Non sapevo che questi erano giochi ancestrali, anzi fondatori e rigeneratori delle nostre società.

 

 

Nietzsche non aveva peli sulla lingua, mentre attaccava gli operai della filosofia Kant e Hegel, bravi a collezionare e costruire sistemi di riferimento rigidi come i mattoni ma mai realmente intuitivi, come i veri filosofi che sono essenzialmente creatori di nuovi valori. Ma quello che più lo mandava in bestia, tra tante altre cose, era tutta la teoria contrattualistica antica e moderna, che meritava e ricevette una picconata decisa; era inaccettabile per lo scrittore di “Al di là del bene e del male” concepire la forma del contratto, dell’accordo generale, come ipotetica soluzione pacifica all'origine di ogni nostra società.

 

 

 

La nostra Civiltà nasce da una questione di vecchi soprusi, di conquiste e rubabandiera sanguinose: chi comanda inventa il bene e il male per i suoi sudditi e prega i suoi consiglieri di commisurare alle leggi, le pene. Persino Jean-Jacques Rousseau con il suo contratto sociale, resoconto di una democrazia diretta scelta da una astratta volontà generale, poteva andarsi a far benedire, mentre l’Homo homini lupus di Thomas Hobbes poteva essere per Nietzsche più realistico e meno poetico, narrante uno stato brutale e violento della natura dell’uomo, che non è affatto buono verso il suo simile o rispettoso, ma che in genere se ne infischia di quel che accade all'altro anche perché, ancestralmente parlando e figurandosi l'era delle caverne, l'altro non esisteva se non a miglia e miglia di distanza.

 

 

 

Trovarsi, per caso, per accidente avvenuto o per disperazione comune, per la prima volta intorno ad un fuoco per scaldare le proprie membra freddate dall’inverno, può essere un'ipotesi di lavoro neanche tanto immaginosa con la quale spiegarci il sorgere di certi sentimenti come l’invidia, la cupidigia, la meschinità e via dicendo. Gli uomini intorno al circolo, infatti, per la prima volta si guardano. Tutti vizi, dirà l’uomo comune, partoriti dal proprio egoismo e in nome di un suo dominio assoluto e perpetrante sull’altro, ma comunque di pari passo connessi ai sentimenti di altruismocondivisione, rispetto e quant’altro si possa produrre di positivo nei confronti dell’estraneo, che vive fuori dal nostro ego e che incontriamo per la prima volta proprio intorno al fuoco.

Il povero Jean-Jacques, nella sua analisi filosofica, aveva intuito però quell'elemento disturbante e distruttivo della ingenuità umana proprio nel confronto, nella prima relazione che mette un essere umano di fronte all’altro ponendo in luce le loro differenze. Gli uomini sono diversi ma non lo sanno e non sanno ancora che la società è la coesione di questi diversi in nome di uno scopo comune. E lo scopo, al di là della romantica idea che ci si trovi insieme per condividere la fede nell’amore comune e per conquistare la serenità del cielo in testa e della terra sotto ai piedi, insieme al pane quotidiano, è quello di evitare il più possibile il sangue e la sete di sangue.

 

 

 

“Il Leviatano ci divorerà tutti mentre ci benedice”, sembra sussurrarci la filosofia politica dei tiranni, ma è pur sempre un nostro prodotto e se smettiamo di sperare che la società possa essere una spassionata unione religiosa fatta di strette di mano, possiamo capire quanto contino invece le restrizioni e le sanzioni per avvalorare i nostri rapporti.  È l’ideale mortifero e salvifico dello stato degli uguali, dove l’indifferenziazione, la mancanza delle differenze è il leit motiv del grande romanzo, lacrimoso o meno, sulle società e sulle Nazioni. “La legge è uguale per tutti” si recita nei nostri tribunali e le fattispecie del diritto non sono altro che tetti indifferenziati, estesi quel tanto che serve, per salvare dalla pioggia della guerra perenne i differenti casi. Le sentenze offrono delle variabili di interpretazione concrete, tangibili delle fattispecie del diritto ogni giorno. E questo perché non si può chiudere la vita di un uomo in uno scrigno. Ma bisogna poter prevedere anche quello che non si può prevedere.

 

 

 

Thomas Hobbes non aveva ancora vissuto la luce dei lumi, come uomo del Seicento era ancora immune dalle sindromi chiamate illuminismo e positivismo, gravido questo della pre-romantica teoria di Darwin, probabilmente scriveva le sue opere davanti ad un camino in pietra: il fuoco dovette sembrargli ancora il centro di potere e di condivisione della vita.

 

 

 

Eraclito ne parlava come l’inizio e la fine di tutto. Ma Eraclito “l’Oscuro” era un filosofo troppo antico, scriveva in versi, dei quali conserviamo oggi pochissimi luminosi frammenti, e non possiamo ridurci a chiedere l’elemosina ai greci ancora una volta. Ormai da tempo abbiamo il riscaldamento a casa e l’aria condizionata per l’estate, i falò sulla spiaggia non sono più tanto di moda tra i giovani di oggi e le nostre differenze, non possono essere più semplicemente indifferenziate e regolate dal gruppo sportivo, politico o religioso di turno.

 

 

 

Marcuse, nel ’68, paventava con orrore l'irruzione delle televisioni nelle camere da letto, dove improvvisamente accanto alla coppia di sposi si presentava un altro, chiamato Mass media.

 

 

 

Friedrich Nietzsche intravedeva nell’avvicinarsi dell’epoca delle masse il pericolo di una omogeneizzazione dei consumi e della distribuzione del lavoro che avrebbe condotto ad un settarismo della scienza, a guerre sempre più violente, e ad accaparramenti di risorse per i più forti. La società di oggi è così democratica nell’offrirci infiniti servizi e infinite soluzioni di consumo e di intrattenimento, che possiamo dirci esausti nel contarli e pensando al vecchio Thomas e alle sue teorie giustificanti la tirannide come soluzione al contenimento delle tendenze brutali umane, oggi il filosofo inglese empirista vedrebbe centuplicare i suoi Leviatani.

 

 

 

Ognuno di noi prima di entrare a far parte di un social o di questi gruppi o fuochi sulla spiaggia mediatica, deve per così dire, essere schedato. La scheda di iscrizione è di solito gratuita e prevede l'inserimento dei nostri dati, e questo vale anche per i minori, quando entrano nelle loro sezioni di gioco o di intrattenimento sociale. A tutt'oggi non c'è un vero regolamento legislativo su Internet; fu l’argomento di un “open day” di 2 anni fa, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma, dove il preside ragionò davanti agli astanti e ai futuri studenti, su questo spazio giuridico/non giuridico ancora poco regolato.

 

 

 

 

Internet non è solo connessione, è un sistema di vita ormai. Siamo circondati dai fuochi: c'è l'imbarazzo della scelta e intorno ad ognuno di questi fuochi girano dei pianeti.  Enormi circoli di esseri umani che spesso giocano, senza saperlo a mosca cieca con potentissimi e scaltri media e “sottomedia” che impegnano in girandole al buio le malcapitate vittime. Sì, al buio.

 

 

 

Perché le notizie, le curiosità, le false notizie sono tutte mischiate, e anche se volessimo concentrarci per una ricerca sui dati dei decessi da Covid19, come ho cominciato a fare io qualche settimana fa, ci troveremmo nell’imbarazzo di doverci confrontare con gli articoli di giornale, con notizie bomba arrivate per caso, con pulpiti di ogni colore e razza animati di furore e libidine della verità, dai virologi accreditati a quelli sfiduciati, dai sermoni dei più arrabbiati qualunque alle dichiarazioni di politici, medici, epidemiologi.

Ma non c’è dubbio che i social siano sorgenti di calore per tutti quanti.

 

 

E parafrasando René Girard, le guerre, i grandi stati di crisi, le epidemie e gli sconvolgimenti naturali, abbattono le differenze tra uno strato sociale e l’altro, tra un individuo e l'altro e a volte anche tra le istituzioni dello Stato, indebolite e frastagliate da questi eventi così grandi. Ne consegue che tra queste Istituzioni e il vero ambito sociale crolla qualsiasi ponte e, all'improvviso, ci si ritrova in un romanzo di Moravia, nell’ indifferente sistema della indifferenziazione.

 

 

 

Siamo tutti uguali perché siamo tutti nella stessa condizione e ci conformiamo ad esserlo per il bene comune. Ma è poi vero questo? Così recita Girard, all’inizio del suo libro, scoprendo la necessità mitica della rigenerazione attraverso la perdita della diversità sotto il tetto del male comune, e il capro espiatorio accerchiato dai suoi persecutori, morendo, dovrebbe mondare il mondo che lui stesso avrebbe infestato, liberandolo dallo spettro della paura e della morte.

«Dal momento in cui divampa in un regno o in una repubblica questo fuoco violento impetuoso, si vedono i magistrati frastornati, le popolazioni spaventate, il governo politico disarticolato. La giustizia non viene più rispettata le attività si fermano, le famiglie perdono la loro coesione e le strade la loro animazione, tutto è ridotto in uno stato di estrema confusione, tutto è rovina perché tutto è colpito e sconvolto dal peso della grandezza di una calamità così orrenda e le persone senza distinzione di condizione o di ricchezza affogano in una tristezza mortale e quelli che ieri seppellivano oggi sono seppelliti, si nega qualsiasi pietà agli amici perché ogni forma di pietà è pericolosa…» (René Girard, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano, 1999).