LA VILLA

LA VILLA

 

 

 

di Ricardo E. Trebino

 

La villa che dà il titolo al racconto è un luogo di felicità possibile. Tutto in essa promette successo, mentre tutto annuncia l’inevitabile fallimento. Qui il fallimento è caduta, svelamento, incontro a lungo eluso con il nulla, che è la verità. R. Trebino scrive in italiano per dare voce ad un’ispirazione profonda, quella delle sue origini italiane, lucane per la precisione. Il valore e la forza dell´identità si esprimono attraverso un linguaggio grottesco, su un piano fantastico e sentimentale allo stesso tempo, nel gioco narrativo di un realismo anacronico, quello appunto delle origini, di un tempo non vissuto, ma in cui invece ha vissuto chi ci ha preceduto. E il sapore del passato, dolce ma seducente, si fa aspro a tratti e fa intravvedere il pericolo dell’estinzione, in una forma di “cupio dissolvi” misteriosa, inconsapevole e per questo trascinante.

                                                                                             L.Z.

 

 

La villa signorile era molto vicina al mare, circondata da un ampio parco pieno di alberi: pini, noci e querce, una bella cornice naturale. Aveva avuto anni di splendore all'epoca in cui la abitavamo.

 

 

La mia famiglia era un clan di scultori, pittori, letterati, attori e musicisti che godeva  delle serate con i suoi amici, di origine e posizione sociale diverse. In quelle adunate, la musica, il canto e la poesia si fondevano nella gamma multicolore dei tessuti, dell’atmosfera e del paesaggio marino che ci circondava.

Sebbene noi bambini non partecipassimo a  quelle “soirées”, non esagero se dico che la villa fu anche una scuola di vita.

I miei genitori e i miei zii si arricchirono  con le loro attività artistiche, ma il benessere durò finché durarono le proprietà dei nonni, frutto di una vita di lavoro e sacrifici di cui non erano riusciti a godere.

 

 

 

Io e i miei fratelli eravamo giovani e inconsapevoli. Adempievamo ai nostri doveri scolastici, e, ovviamente, amavamo gli agi di famiglia .

Trascorso il tempo, secondo le leggi del destino, quando i soldi cominciarono a scarseggiare, anche gli amici svanirono...nel frattempo i  nostri genitori invecchiarono e si ammalarono. Noi, ormai grandi, facemmo tutto il possibile per arrivare ad una fine dignitosa, come loro avrebbero desiderato. Ma questo accadde nella più dolorosa solitudine. La ruota della fortuna, nel suo giro permanente, questa volta per noi si fermò in basso.

 

 

 

I nostri genitori morirono quasi insieme; insieme come avevano sempre vissuto.

I miei fratelli decisero di tentare la fortuna ognuno per conto proprio e si stabilirono in diverse parti del mondo, per lasciarsi alle spalle i ricordi delle glorie irreali, ed anche qualche amarezza. Io rimasi lì, invece, a tentare una nuova vita; vendei il poco che avevo - e avrei ceduto anche la vecchia casa se qualcuno l’avesse acquistata - per pagare i debiti ereditati. Così, mi nominai amministratore della miseria...

 

 

 

Fu allora che ebbi una relazione con Nunzia, un’attraente nobildonna, di qualche anno maggiore di me. Era una brava pittrice che da giovane frequentava le serate dell’età dorata della villa. Ricordo i miei genitori dire di Nunzia che era sempre alla ricerca di un “conto in banca con i pantaloni”, per restituire splendore alle origini opacizzate dal presente.

 

 

 

Dopo che ci lasciammo provò svariate volte a raggiungere il suo obiettivo, finché non ci riuscì, e sposò un vecchio notaio: Amedeo Pennarello, appassionato di lettere, grappa, donne e  imbrogli, e, soprattutto, possessore di un’interessante fortuna.

Quando incontrai di nuovo Nunzia, non ero più il ragazzo della villetta al mare, né lei la giovane artista di sangue blu. Il nostro rapporto fu strano, perché io non ero  interessato ad una relazione furtiva, d’altra parte era difficile sfuggire al suo fascino e a quello del suo benessere.

 

  

 

Insomma, la Contessa si innamorò e diventò praticamente impossibile ostacolarla. Condividemmo traboccanti giorni di passione. Il suo amore crebbe al punto da convincere il notaio a comprare la villa al mare.

Ciò significò per me allontanarmi dall'abisso, dalla rovina a cui mi avevano portato i debiti che i miei fratelli avevano rinnegato in aeternum.

Dopo aver preso possesso della villa, Pennarello e Nunzia ne fecero riparare le magagne, e immediatamente lei sistemò il suo studio in quella che era stata la mia stanza, pensando di sentire la mia presenza in quel luogo. Era così innamorata ....

La vita passava, in clandestinità per noi. Ma siccome nulla è per sempre, il nostro rapporto cominciò ad attraversare periodi di stanchezza che ci portarono verso altri orizzonti. Lei si riavvicinò a un suo vecchio amico ingegnere, mentre io vivevo qualche avventura. Ad ogni modo, qualche volta riuscivamo ad incontrarci.

 

 

 

Una notte, uscii con vecchi amici dei tempi dell´università; bevvi troppo e quando salii in macchina per ritornare a casa ebbi un dubbio: avrei potuto guidare? Forse offuscato dall'alcol presi la decisione sbagliata.

Avevo i finestrini abbassati in modo che il vento del mare mi liberasse dal malessere. L’autostrada non era trafficata, dunque irresponsabilmente accelerai perché volevo arrivare presto. Alla curva del faro toccai il guardrail e persi il controllo della macchina che prima cominciò a girare e poi si rovesciò, mentre tutto filava tra il rumore assordante dei colpi contro l’asfalto, in mezzo a  giri che sembravano interminabili. L’ultima cosa che ricordo è che riuscii a passarmi la mano sul viso per togliere il sangue che mi gonfiava gli occhi... Dopo, il nulla.

 

 

 

In seguito a quell'incidente Nunzia mi portò con sé, facendo di tutto per non lasciarmi andare, e senza preoccuparsi di Pennarello. Io ero immobilizzato.

La Contessa diventò per me una protettrice e nonostante il tempo passasse senza pietà, manteneva il suo elegante contegno senza curarsi delle rughe, dell’andare leggermente storto e delle poche tracce di quei capelli neri e setosi, oggi divenuti bianchi e quasi senza vita, che lei aveva riconciliato in uno chignon.

 

 

 

La vedo ancora lì, nel salotto,uno dei vestigi del palazzetto di una volta. Seduta sul divano  sfilacciato, che copre con un cuscino una molla ribelle. Passa il tempo ricamando rose e margherite in un piccolo telaio e ogni tanto fissa gli occhi sul tavolino dei ritratti, donde vivono, in foto, i pezzi della sua vita.

In altri dipinti che pendono dalle pareti scrostate ci sono le severe immagini di signore eleganti e gentiluomini in sontuose divise. Mi piace quando osserva da questa parte, come estasiata, anche se sembra guardare senza vedere, come fanno alcuni anziani, e sussurra qualcosa che non capisco.

Una notte, il notaio decise di invitarla a cena in un rinomato ristorante della zona. Nunzia accettò a malincuore perché sapeva che con l’invito sarebbero venute nuove richieste che mi riguardavano. Il rapporto tra loro era come un vecchio albero che anche da morto resta in piedi.

Nel tragitto, ascoltai un dialogo che rinnovava l’eterna discussione:

– Nunzia, sono stufo! Non sopporto più che, a causa tua, lui sia sempre tra noi. Sai benissimo che preferisco non nominarlo nemmeno, e dimmi: fino a quando dovrò tollerare questi tuoi capricci?

-      Ti prego Amedeo, lascia andare. Poverino, lui non disturba. E tu sempre con gli stessi rimproveri, è la millesima volta che discutiamo per questo motivo. Basta! E invece di badare a queste cose, sarebbe meglio se non facessi ridere, andando dietro alle ragazze, sei vecchio! E continuavano a litigare.

Come al solito, aspettai il loro ritorno, mentre cercavo di lasciare quella casa dove non volevo rimanere neanche un giorno di più. Non so quanto tempo passò, ma quando rientrarono Nunzia era furiosa, ed anche triste. Entrò nel salotto buio scuotendo la testa come se mi stesse cercando mentre piangeva in silenzio.

Io non ne volevo più sapere di restare all´infinito nella villa. Maledetto incidente! Dovevo liberarmi una volta per tutte. Lei non capiva che tutto era cambiato. Tardi, dopo quella notte fatidica, avevo scoperto che avevamo vissuto una vita artificiale, semplicemente una recita, a cui per convenienza ci eravamo prestati.

-      Nunzia: devi capirlo una volta per tutte, lasciami andare, ho bisogno della mia libertà!

La Contessa, per qualche minuto, fissò il suo sguardo su di me, senza dire nulla, poi aprì le porte, uscì dalla stanza e corse verso il retro del palazzetto. Si inginocchiò davanti alla mia tomba e pianse amaramente lacrime trattenute da tempo immemorabile. Nel momento in cui i suoi occhi furono asciutti capì che questa era l’unica occasione che aveva per lasciarmi andare.

Ciò che restava del mio corpo era ancora sotto il marmo, ma il mio spirito –finalmente- raggiunse la libertà. Ora ero diventato un fantasma libero e felice....