VETRI ROTTI

VETRI ROTTI 

di Arthur Miller

Regia di Salvatore Di Mattia

Teatro Agorà - Roma 

 

recensione di Federica Bassetti

Il Teatro Agorà del marzo 2014 diventa Brooklyn del novembre 1938. L’intensa Eleonora Pariante diventa Sylvia Gellburg, protagonista di una amara storia che si rivela profondamente attuale e vera. 

 

 

 

L'elegante e inappuntabile Giorgio Carosi diventa Philip, suo marito e riuscito uomo d’affari, dedito al successo e all’affermazione di un cognome storpiato nel tempo, per nascondere i natali ebrei; il più maturo e riflessivo Mauro Lorenzini diventa il dott. Hyman, sicuro di curare una donna sofferente ma colpita soltanto in apparenza da un dramma fisico che ha altre origini, più profonde ed inconsce.

Ecco come il regista Salvatore Di Mattia ha voluto ricordare e rivivere il denso copione di Arthur Miller, Broken Glass, "Vetri rotti", che ebbe la prima rappresentazione ufficiale a New Haven nel  Connecticut nel marzo del ’94 e una prima edizione italiana a Bologna nel febbraio 1995, per la regia di Mario Missiroli. Al teatro Agorà è stata messa in scena totalmente con la presenza di tutti gli attori sul palco, a volte a fari spenti, a volte accesi, a volte fermi, le spalle al pubblico, a volte protagonisti unici di un unico dramma e invece legati tutti dallo stesso filo che scorre nel fondo. Vitali, dubbiosi, incapaci, capaci solo di riflettere come tanti specchi rotti la tragedia dell’esistere, gli attori girano tutti intorno a Sylvia che viene improvvisamente colpita da un'inspiegabile paralisi agli arti inferiori e che scandisce con la sua immobilità sensuale e nervosa ogni passo della performance, calata in anni così lontani ma poi per così dire eterna. Perché scomoda le forze dell’anima non solo convenzionale del tempo diventando proprio sul finire, un esempio di fuga emozionale dal mondo, un archetipico tentativo di risveglio che passa proprio attraverso il male esemplare della protagonista e che coinvolge anche gli spettatori consentendo l’abbandono del paradigma storico presente.

Sylvia è una donna benestante, un figlio maschio promesso alla carriera militare, un marito quasi perfetto. Eppure…non c’è felicità se all’improvviso qualcosa si ferma dentro e paralizza ogni evento, non c’è crescita, non c’è sviluppo, solo una prigione dorata dove una ragazza una volta dal marito è stata dolcemente rinchiusa. E Sylvia dopo tanti anni di matrimonio e dopo tanta perfezione, non si muove. Le gambe non vogliono muoversi così come non si muove la Storia che nel particolare momento, annuncia la tragedia del nazismo, di un nazismo che sta per prodursi in Guerra e che si trova di fronte un’Europa impaludata nella sua inedia borghese, ancorata a valori di apparenza e perbenismo. Miller è quasi ottantenne quando scrive questa piece dallo sfondo psicoanalitico che indaga il dramma dell’Olocausto attraverso il dramma visibile di questa intelligente e affascinante donna ebrea che si affaccia sull’invisibile labirinto dell’inconscio umano, sacrificato ad una coscienza sempre più lucida e lucidata dal ripetersi metodico delle regole. Le regole della società, le regole di un’etica professionale sempre più improntata alla produzione di denaro per il denaro, le regole di un esistere dietro la maschera del presente senza più alcun passato e senza l’ombra di un futuro degno di essere vissuto. Proprio Sylvia infatti è ossessionata dalle notizie delle persecuzioni contro gli ebrei in Germania che legge sui giornali e di quella che fu la Kristallnacht e la rottura del suo guscio di donna, nel quale ha sempre vissuto, nascosta, lasciata sola dal marito che non la avvicina più da tempo, che non riesce ad amarla perché non riesce ad amare se stesso, le sue origini, la sua storia, il suo sottosuolo autentico.

E Brooklyn isolata, mediocre, perbenista e arrivista volta le spalle a chi si ferma, a chi medita, a chi dubita, volta le spalle persino al pubblico mentre i due protagonisti tentano di capirsi, di riconoscersi, di restare integri e frammentati, rotti invece, feriti, volta le spalle alla Storia perché è da tutto lontana come era dalla Guerra lontana l’America, volta le spalle a Philip che prima fallisce e poi muore, lasciando libera lei Sylvia, che viene risvegliata da quella morte, perché non c’è spazio per tutti e due, non più, perché neanche il carceriere sa di essere carceriere e la paralisi delle gambe di Sylvia non sapeva di essere paralisi del cuore.

F EDERICA BASSETTI

 

"Vetri rotti" di Arthur Miller, regia di Salvatore Di Mattia

personaggi e interpreti:

Philip Gellburg: Giorgio Carosi

Sylvia Gellburg: Eleonora Pariante

dott. Hyman: Mauro Lorenzini

Margaret Hyman: Maria Grazia Bordone

Harriet: Monica Lammardo

Stanton Case: Emilio Santoro.