COSA RESTA TRA LE DITA

COSA RESTA TRA LE DITA

 

 

 

     racconto di Francesco Frigione 

«Lasciatemi alla scuola dei morti

dove senza rumore si apprende

un vuoto appeso, presente nutriente»

 

Mariangela Gualtieri, Le giovani parole.

 

Mi passo tra le dita il congegno: un cilindro di ottone, pertugi su piccoli scudi, tiranti metallici - una serratura astrusa. Eppure mi è bastato girare il pomello della porta perché il meccanismo cedesse.

Oltre la soglia, cerco il suo profumo. È scomparso. Tutto buio, secco, un tugurio abbandonato. Non sono passate ore, ma ere. Qualcosa d’inerte giace a terra, sparso ovunque. Lo calpesto.

***

 


 

Torno al piano terra, al viavai della banca, le spalle curvate dal buio di una notte in cui ho tradito la consegna: restare a guardia del suo sonno e proteggerla dai morti che ci circondavano nella stanza centrale. Invece, sono scivolato nel sonno.

Deve essermi entrata nel respiro l’aria ferma, priva di affanno; mi ha ipnotizzato il mormorio alle spalle dei volti. Stavano seduti immobili, ai quattro lati. Tutti tranne lei, che è venuta da me forte, fiera, sinuosa.

Le ho accarezzato i capelli, ma le mie mani avrebbero dovuto scendere ancora, percorrerle la schiena, sfiorarle i fianchi, stringerle il seno, strizzarle i capezzoli, affondarle nel sesso; avrei dovuto farlo davanti a tutti: al marito, alle figlie, ai parenti, agli amici, a quella confraternita di morti appoggiati sui divani e sui letti, allineati alle pareti. La sfida si giocava lì, appena dopo il corridoio foderato d’ombra, in quel centro illuminato, al culmine della festa. Sì, le mie mani avrebbero dovuto svegliarla palmo a palmo.

***

Ora, invece, smontano e compongono congegni, e poi li rinfilano e li richiudono; dopo la serratura della porta, hanno trovato la strada delle chiusure degli armadi, delle panche, dei tiretti, che pendono come lingue di cane alle mie spalle.

 

***

Ma questa notte, no, le mie mani si sono fermate. In un attimo mi sono sentito così sicuro e pervaso di calore, che le ho sussurrato: “siamo eterni”. Così ho smesso di guardarla e ho fissato lo spazio che i morti stavano livellando in silenzio dietro la festa, dietro gli scherzi, i colori, i giochi, convinto chele larve sarebbero evaporate.

Avrei dovuto vigilare, invece; avrei dovuto eccitarla, eccitarmi, penetrarla spudoratamente davanti a tutti. Questo avrei dovuto fare.

 

Lei si è accovacciata come una cerbiatta. L’impudenza era riservata agli altri, gli altri che ci osservavano senza intervenire, impotenti e rigidi come manici di scopa, con gli occhi ridotti dall’odio a punte di spillo. La sfrontatezza ci rendeva immuni da ogni invidia. M’illudevo.

Mi ha poggiato la testa sulle ginocchia, e io, seduto sul letto, le ho carezzato la nuca e i capelli lunghi, fitti, morbidi, di seta: era destinata a me su quel giaciglio di fortuna e io proteggevo il suo riposo, in attesa che i morti, sconfitti, si ritirassero. Appena il sole avesse squarciato il buio, saremmo stati liberi di amarci, avremmo inondato di gioia il mondo.

Lei mi ha tagliato in due la vita, attraversando la stanza; poi è scivolata sul materasso, cercando il contatto, il caldo, lo sfregamento dei nostri respiri incrociati. E io, incosciente, l’ho seguita nel sonno. Senza esitare aveva spezzato l’equilibrio dei morti. Si fidava di me.

E io ho fallito.

***

Questo edificio intatto, mi accorgo, in verità è un corpo sventrato. Ieri sera, mentre salivo ai piani superiori, non badavo alla percussione del silenzio. Il caos qui è vacuo, l’assenza di rumore si ripercuote nelle scale, batte sul travertino lucido e squadrato, trapela dai finestroni affacciati  su chiostrine cieche. Questo luogo sprigiona l’intuizione di porte fasulle, di ringhiere messe a guardia di cantine piombate, d’ingressi soffocati da muri.

Dall’alto scorgo lo sportello di banca. Lo sormonta un soppalco bombato. Dietro, uffici su uffici sigillano i segreti di remoti clienti; nei corridoi, strati di moquette assorbono i passi di funzionari privi di lineamenti e di dubbi. L’ultimo sbuffo dell’architettura è una meringa aggettante sulle mani operose delle impiegate. Mani svelte e levigate, che toccano denaro frusciante, odoroso; le banconote manipolate a quel modo frullano come le ali di un merlo. Mani che inclinano le penne con cura, polpastrelli che ritmano sui tasti dei computer,  vendemmiano scambi e tessono suoni.

L’impiegata alla cassa è mia amica - un modello di serena efficienza, affaccendata e dotata di tatto: mi riserva una piega del sorriso, mentre conta il denaro che estraggo da una borsa di pelle. Era disseminato nell’appartamento, riverso per terra, sui letti, sui tavoli, nei cassetti, sugli scaffali. Tutti fogli cremisi di identico taglio. Adesso conoscerò precisamente l’ammontare del mio conto.

***

All’alba lei mi ha ucciso. Non so se avesse scelta: io dormivo e non ho visto. Di certo si è accodata al corteo ordinato delle ombre, sommessamente in marcia verso il nulla, ovatta al posto dei piedi, senza dolore, desiderio, pensieri.

 

Mi sono risvegliato con conoscenze furtive e i sensi allertati.

Odo i fruscii di lei dal buco della serratura del mondo. Ma non posso scorgerla, non posso toccarla, non posso stringerla. Il mio mondo è scuro come l’ombra, come l’ombra che sono.

Una cosa soltanto so: da ombra eseguo una danza; una danza in cui l’assenza del suo corpo è l’essenza che mi guida. L’essenza dei gesti del fabbro, del rapace, del violento, dello spergiuro. L’essenza che sussurra di violare i corpi, le soglie, gli spazi.

Rubo a me stesso, dissolvo i miei giorni.

A volte vorrei risollevarmi, ma non padroneggio il mio destino. Le mie forze, la mia volontà non bastano. Niente basta. La ricchezza di carta di cui dispongo serve solo a resistere, in attesa che lei torni.

Mi avvolgerà, allora. Con le labbra mi riattaccherà gli occhi, con la lingua me li aprirà alla luce, con l’alito mi restituirà la vita.