L'UOMO TIGRE

L’UOMO TIGRE

 

 

        di Federica Bassetti

 

Fino al 24 maggio al teatro Argot a Roma, molti spettatori si sentiranno in gabbia, protagonisti di una vita non vita. Alfredo Angelici, principale attore dello spettacolo “L’uomo tigre”, insieme a Caterina Corsi, a Camillo Grassi e Alessandro Filosa, è una delle tigri che per noi scende all’inferno, come racconta lui stesso, autore insieme al regista Giuffrè del testo: «Una discesa nel sottosuolo. In ogni senso.», dice Angelici, un'autocondanna dopo aver perduto la dignità, una calata nel mondo di Ade, come gli eroi greci in cerca di risveglio.

 

E cosa c’è di originale in questo? Tutto quanto, se il mito degli inferi, è non semplice eroico racconto, ma archetipico bisogno.  Non è solo l’Io a nascere, anche l’Inconscio ha la sua origine e se oggi ci obbligano a sentirci continuamente originali, è perché ci stanno strappando via le radici e nei bisogni e nelle aspirazioni ci ritroviamo invece sempre più uguali e ordinari.

Sì, certo sono gli uomini comuni che mandano avanti il mondo, ma debbono pur avere un sogno, un mito che soddisfi la segreta fame di eccezione, nascosta dentro. E l’uomo straordinario, il grande esempio, anche se inventato, trova qui il suo senso.

Negli anni Ottanta l’eccezione fu giapponese e quei cartoni animati sublimavano forsanche esagerando il nostro segreto bisogno di essere eroici e maledetti nello stesso tempo. C’era persino la pausa in tv, lascito del vecchio carosello, che negava alle figure televisive di persistere nel tempo, c’erano orari per le trasmissioni infantili, c’erano degli inizi e delle fini. Oggi, invece, non si finisce mai: abbiamo una scelta cinematografica su Skype smisurata e se le parole “per sempre” e “tutti” vengono associate alla pubblicità dei contratti telefonici per eternarci, se i concetti di vita, amore, bellezza, di per sé assoluti e infiniti, vengono venduti insieme alle merendine e alle app, le cose con un inizio e una fine possono e debbono assumere per noi un valore completamente nuovo.

Certi cartoni animati possono diventare addirittura dei miti quando sono per lo meno finiti, recintati dai nostri ricordi, replicati ma vecchi, perlomeno passati. Heidi, Goldrake, Candie Candie e che dire di quelli riservati ai più grandi e nel linguaggio, nelle azioni più violenti? Lady Oscar, Lupin III, Daitan 3.

E l'Uomo Tigre? Qualcuno lo vedeva addirittura di nascosto, i genitori lo trovavano violento, sputi di sangue, contorsioni di rabbia, pugni, calci e tanta sofferenza anche se il lottatore non soffre soltanto all'esterno, ma dentro, all’interno di se stesso. Il vero guerriero, cantilenava il poeta greco Archiloco in tempi arcaici, ormai quasi leggendari, era l’uomo comune che lotta ogni giorno per vivere e per restare sveglio e il vero eroe non è quello bello, biondo, muscoloso e attento come voleva Omero, ma piccolo, storto, ben piantato a terra, arguto nello sguardo. L’Uomo Tigre è così, Angelici lo fa malmesso, dimagrito e stanco, chiuso in piccoli gesti goffi che simulano la sua antica forza e il suo entusiasmo ormai spento. E quel vorace e svelto felino del quale il lottatore portava la maschera digrignante, metà uomo e metà bestia sul ring in lotta con altri non meno arrabbiati competitori, era quasi vietato all'epoca in cui non si poteva immaginare che i divieti familiari un giorno sarebbero diventati quasi impossibili. L’esperienza ormai è livellare; mischiare il vecchio con il nuovo non è solo possibile ma addirittura regolamentare; il bene sta accanto al male; il brutto forse è bello; l’indecente e il decente sono lo stesso; la morale è poter fare sia questo che quello; insomma ritrovare una vecchia storia di una volta, un vecchio eroe da fumetto, potrebbe essere invece l’occasione per distinguere e separare finalmente le cose.

Chiuso in una stanza dove ripete insieme ad uno squallido scalcinato presentatore i suoi ormai ridicoli sforzi di Uomo Tigre di una volta che, dopo aver ucciso il suo antagonista sul ring, è caduto in disgrazia. L’eroe balbetta davanti al suo pubblico e, incerto e ossessivo, fa tenerezza, imprigionato dalla sua fidanzata-manager nelle segrete del fallimento e dell’esclusione completa dal mondo. L’anima del grande lottatore risorge però, talvolta sul palco, trasformato in uno di quei luoghi di spettacolo provvisori che lasciano pensare al retro magico e miserabile, dei vecchi carrozzoni che sostavano nei paesi e nelle contrade, per vendere il loro fumo e i loro giochi illusori.

Lo spirito ciclopico e arrabbiato del Tigre, torna in forma di sogno spietato e, tra un buio e l’altro, tra spranghe che non si piegano e un fantoccio che viene abilmente e assurdamente ogni volta decapitato, apre uno spiraglio, dall’alto. sulla tavola di legno dove i tre ritualmente e ossessivamente si raccolgono. Un fascio di luce buca l’ombra di quel luogo asfittico con il lettuccio parato in fondo e la radio che manda sempre la notizia del suo ultimo grande,  terribile incontro, quando l’uomo Tigre era l’eroe wrestler del momento; un fascio di luce che del mondo esterno è presagio e annuncio.

Il mito della caverna di Platone racconta di quel foro posizionato in alto al centro, da dove irrompe la luce del sole, ma l’unico uomo che da quella grotta  fugge all’esterno e vede e gode con terrore e poi con meraviglia il suo risveglio, al ritorno nella caverna per avvisare gli altri, si trova non solo deluso, ma rischia di essere ucciso, colpevole di aver negato quello che tutti gli altri sono abituati a tenere per vero e per saldo. Così tentennante, ripetitivo, ma dubbioso e salvo,  l’eroe di nuovo sente la fiamma bruciargli in petto dopo aver giocato con le mani con quel fascio di luce e i biglietti di bambini-fans, che lo aspettano e che alla fine piovono dall’alto, sembrano pezzetti di rinnovato sentimento.

Allora, tolta la maschera con sollievo sia del Tigre che dell’attore, e indotto persino il grande spirito a ritornargli in grembo, non più sogno esterno, ma catturato e risolto all’interno, questo dolce eroe impreciso e sghembo, si addrizza, addormenta i suoi carcerieri, addormenta il suo ridicolo tentativo di  successo sotto vuoto, ed esce dal palco, liberando tutti i vecchi supereroi di un tempo - metafora della gabbia che ci hanno costruito intorno.

Relegati in uno strano sonnolento limbo, gli eroi invincibili e assurdi dei fumetti e dei cartoni animati, ancora disegnati a mano, si liberano dal nostro livellare e mediatico confronto che tutto appiana e confonde e s’impongono come piccola vittoria del sano Inconscio, dove giace dormiente il nostro guerriero sghembo eppure dallo sguardo audace.

 

Circolo culturale Argostudio:

 Via Natale del Grande 27

00153 Roma (Trastevere)

tel/fax +39  06 5898111