SE BELLA VUOI APPARIRE

SE BELLA VUOI APPARIRE

 

 

 

         di Federica Bassetti

SE BELLA VUOI APPARIRE

di Paolo Bignami

con Carla Giovannone

dal 24 al 27 aprile 2015

Teatro di Documenti

 Via Nicola Zabaglia, 42 – Roma

 

In scena al Teatro di Documenti di Roma, il monologo “Se bella vuoi apparire”, interpretato dall’attrice  Carla Giovannone, scopre vecchie ferite mai rimarginate, tragicommedie femminili non più esemplari, non più commoventi, anacronistiche e quasi leggendarie, e forse il sorriso che la Giovannone strappa ogni tanto al pubblico nella sua conferenza un po’ nevrotica e spiritosa, se non spiritata o ispirata, è troppo stiracchiato per dirsi davvero espresso e pacificante. 

 

Il conflitto resta aperto e la scena spesso si isterizza, sotto luci fin troppe nette. Ma l’isteria non muove a pietà né impressiona, perché viene all’istante inghiottita con le sue pentole, scope e strofinacci, da pensieri astratti e storici, messe in scena ludiche ed evocative, personaggi che affiorano dal viso cangiante  e medianico di questa attrice che pare esplodere e invece, purtroppo, non esplode mai.

Furono le isteriche le vere pioniere della psicoanalisi. Freud cominciò con loro, anzi ricominciò da loro, visto che l’isteria era già nota e considerata malattia solo femminile, forse proveniente dall’utero insoddisfatto, come suggeriva il buon vecchio Platone. La storia della scienza che indaga sul seme femminile lo considera ancora nell’800 inferiore, forse inutile, come inutile è il sangue mestruale, impuro, sporco perché ancora non sublimato per “coazione” - cioè per digestione - secondo gli esperti dell’epoca, nel bianco, puro e schiumoso sperma, vero ed unico viatico della fertilità.

In uno dei suoi ultimi libri, Il mito dell’analisi, James Hillman opera un rovescio sul linguaggio e sul metodo psicoanalitici, vessati da un carico tecnico di matrice illuminista e maschilista, figli di una coscienza che ha soppresso fin dai greci  il suo lato femminile, materno e profondo, per farsi netta, superficiale, tagliente osservatrice metodica, soprattutto nell’analisi del profondo mondo della donna.

L’isteria è dunque un segnale profondo, è il fremito di una bellezza che va in frantumi, figlia adottiva di un amore negato, costretto al cappio; isteria vuol dire richiesta di aiuto. E le scariche che sul palco provocano, per brevi e fugaci passaggi, l’attenzione del pubblico, sono vibrazioni sintomatiche, accordi cinici e sacrificanti, che non vogliono svelare però il vero e profondissimo male che le ha riverberate da tempi immemori e lontani. Ecco che quelle scosse, quelle note sgraziate neanche ci urtano, dissolte in un vuoto che subito si riempie ma che in verità resta sempre vuoto, vuoto di assenza, di mancanza.

La madre, madre terra dov’è finita? Bachofen avrebbe da ridire: nella sua ricostruzione mitica, il matriarcato è stata una società perfetta. A quei tempi coito e maternità non erano collegati e si pensava a ventate di fertilità arrivate per caso a visitare la donna incinta. Quando, soprattutto con gli achei, al culto di Maya si sostituì Zeus, con i suoi antenati maschi da evirare o da soffocare come accadde con il padre Crono, allora la madre si inabissò sotto il mondo del Logos, sotto il pensiero.

Sul palco si accennano, si sfiorano battaglie e momenti epici, si ride e si coinvolge il pubblico, forse fin troppo. L’operazione, però, meriterebbe armi più taglienti per scandagliare il fondo di tutta questa corsa a precipizio. Un pathos prepotente traluce dallo sguardo dell’attrice ogni tanto e allora verrebbe da chiedersi perché non osi di più, per colpire e spingere a meditare, come annuncia la locandina e come a volte, sembra promettere il testo. Si vivono brevi momenti intensi, invece, quando l’attrice rinuncia a se stessa, pur rappresentando, con la forte presenza scenica, l’eroina, la guerriera e finanche la succube.

 

 

L’attrice Carla Giovannone

 

Angelo del focolare, donna in carriera, donna oggetto e posseduta, resa isterica del lavoro e dalla casa, creatura forte e anticamente rispettata, ma che già tra le lenzuola ateniesi puzza e di fronte ai tribunali delle nascite spartane disonora. Ma perché? Non si dice ancora oggi: Auguri e figli maschi?  Mediando l’ingresso di personaggi forti plasmati dalla medesima centenaria coscienza, dal medesimo acume clinico e razionalista, dalla stessa regola di appartenenza della femmina al marito, al padre, al fratello, la Giovannone ha forse con troppo rispetto e delicatezza interrogato la memoria che non è solo collezione di ricordi penosi e soluzioni mancate, ma soprattutto scrigno, tesoro di forme vive e attive nel profondo, che sono state ignorate e messe a tacere per fin troppo tempo. E quelle forme sono le correnti che trascinano le donne nel sesso, nella musica, nell’arte, nel teatro e nel sogno. Nella notte dove si apre un altro occhio, la notte dal muliebre e istintivo volto che è il volto lunare, chimerico, anche mostruoso e magnifico della Terra che vuole la semina e aspetta e cerca il raccolto. Prima che arrivasse Freud, le operazioni di congelamento delle ovaie, i tentativi di intervento all’utero, la lobotomizzazione, erano i rimedi clinici tentati; e l’isteria, quell’energia urgente e disperata che ha reso isterico persino lo stesso destino storico e sociale della donna, doveva essere eliminata e non compresa nel suo essere altro, che, malgrado ogni repressione, ambisce a emergere.

Il femminismo, purtroppo, ha liberato la figlia e ha soppresso la madre, senza che la donna capisse che doveva partorirsi a partire da se stessa, come racconta nel profondo la favola di Cenerentola.  Essere madri di se stesse vuol dire recuperare “la Madre”, non quella afflitta e costretta, non la guardiana del focolare poi diventata serva, non quella succube o rivoluzionaria, né la maschilista che ha insegnato ai propri figli maschi, come verseggiava Pasolini nelle sue “Le madri”, a mangiare le briciole che cascano dal piatto degli altri, che ha insegnato a sgomitare e che ha insegnato a sottomettere le donne. Non la madre storica, ma la madre interiore che si svela nella sua infinita capacità di nutrire il mondo intero con il latte della propria mammella e che solo può dare amore in modo orizzontale e non verticale, la madre spodestata che invece urla e scavalca secoli e immondizie storiche, per diventare una minacciosa ed esule ombra.

La festa che onorava Afrodite si chiamava Isteria; quella di Dioniso con le sue amiche menadi invece era Schizofrenia. Ma si trattava di riti, di celebrazioni, di passaggi, non di malattie, e se lo sono diventate, vuol dire che le menadi dovevano solo urlare e che persino Afrodite rischiava di imbruttirsi a forza di tirare fuori energia storta. E la Giovannone dalla zitella e dallo scapolo passa alla guerra, dalla infelicità ingenua della casalinga alla perversione isterica della donna in carriera, meridionale e stanca diventa anche una vecchia zia mai vissuta, dal voto troppo tardi ottenuto dalla donna, soprattutto in Italia, passa alla Venere di Botticelli e alla sua infinita forma, passa alla bellezza, ma ne evoca il fantasma senza scomodare il simbolo.  E quel corpo uscito dalla schiuma del mare, la Venere di Botticelli, non vibra più ed è un vero peccato che resti sullo sfondo senza trasformarsi, per lo meno, in sogno.   

 

di Paolo Bignami
con Carla Giovannone
regia di Paolo Bignami
scene di Lina Mucerino
produzione Associazione culturale Teatrame