LA CAMPAGNA ED IL MONDO CONTADINO

LA CAMPAGNA ED IL MONDO CONTADINO

 

 

Bovi al carro (Giovanni Fattori)

 

di Luciana Zollo

...ed erra l´armonia per questa valle.

                                                                                                (G. Leopardi

 

Per denominare ciò che comunemente oggi intendiamo per “campagna” la lingua latina possiede due termini: campus, con il significato di “pianura, campo”(da cui il nome di Campania per la fertile regione attorno a Napoli), ma anche di “spianata destinata a pubbliche adunanze o ad esercitazioni militari” (come nel caso del Campus Martius, a Roma, lungo il Tevere); rus, a definire il territorio fuori dalla città (urbs), per cui ire rus significava “andare in campagna” e da qui, in italiano, gli aggettivi “rustico” e  “rurale”.

 

 

 

Calesse nella Maremma toscana (Giovanni Fattori)

 

A sostegno del programma politico augusteo di pacificazione dell’impero, dopo decenni di guerre civili, con la conseguente rivalutazione dell’economia rurale, Publio Virgilio Marone scrisse  le Bucoliche (componimenti in forma di dialoghi sulla vita dei pastori) e le Georgiche (poema didascalico sull’allevamento e l’agricoltura), opere di gusto grecizzante che esaltavano la campagna e la vita dei campi. Alla vigilia della creazione dell’impero, a Virgilio fu richiesto un sostegno, attraverso l’arte, a promuovere il ritorno alla vita ed al lavoro nelle campagne italiche. Nello stesso periodo la cultura latina considerava la campagna ideale per l’otium, il tempo dedicato allo studio, alla contemplazione meditativa della natura e all´esplorazione del sé, in contrapposizione al negotium, il mondo degli affari e del’attività politica, che costituivano il fulcro della vita cittadina.

Dal mondo classico derivano pertanto due concezioni antitetiche: la campagna come rifugio, luogo di pace e salvezza (da cui il termine greco-ellenistico di “idillio” per le poesie che vi sono ambientate), oppure come scena dove si compie il destino di sacrificio dell’uomo, costretto al duro lavoro dopo aver perduto la protezione della divinità. Questa concezione é rappresentata sia dall’allontanamento di Adamo dal Paradiso Terrestre, nella Bibbia, sia dalla fine del regno di Saturno, nel mito greco. Su queste basi, la letteratura italiana continua per secoli a reinterpretare la vita in campagna come benefica e consolatrice. La morale cristiana incoraggia gli stereotipi del “buon” contadino, che vive in sodalizio con la natura, da un lato, e del “peccatore”, destinato a spargere il sudore della sua fronte sui campi per volontà divina. Francesco Petrarca, il primo umanista ad esprimersi in italiano, afferma in molti testi del  Canzoniere, tra cui il celebre sonetto “Solo e pensoso....” che il tormento d’amore, con il dissidio morale che ne consegue, solamente trova conforto nelle solitarie passeggiate in una campagna esuberante ed accogliente. Con toni più realisti e divertiti, nel’Orlando Furioso,Ludovico Ariosto offre boschetti, radure, fronde e ruscelli rinfrescanti come sicuro rifugio ad Angelica in fuga, ai cavalieri che la inseguono, ai guerrieri esausti dalla battaglia e agli innamorati. Questo genere di campagna, amica dell’uomo, riproduce per secoli l’idea del locus amoenus della poesia classica, greca e latina.

Pur scegliendo per la sua prima produzione poetica la denominazione di “idilli”, Giacomo Leopardi conferisce alla campagna un ruolo poetico diverso, segnato da espliciti riferimenti alla realtà, dolceamara come la sua esistenza, del paesaggio di Recanati: la sua sensibilità romantica  non gli consente di distrarsi dalla ricerca della verità. In Canti come “Il passero solitario”, o “Il sabato del villaggio” il mondo rurale diviene specchio dell’io del poeta: in tale ambiente anche gli uomini più semplici vivono nella sofferenza, con pochi momenti di conforto offerti dalla bellezza e dall´inconsapevolezza giovanile.

Giovanni Verga descrive senza indulgenza il mondo contadino della sua Sicilia; il personaggio chiamato Mazzarò nel racconto “La roba”, che diviene successivamente  il protagonista del romanzo “Mastro don Gesualdo”, incarna l’attaccamento primitivo alla terra, il desiderio allucinato di esserne parte indissolubile per non doversi mai staccare, neppure con la morte, dai propri beni, accumulati con il tenace e duro lavoro di un’intera vita. Il verismo verghiano, sulla scia del naturalismo francese, mette in rilievo l’analogia tra le dinamiche sociali e quelle biologiche, su cui la storia intesse le sue vicende. L´amore per la terra e la campagna, lungi dall´essere idealizzato, è indissolubilmente legato ai rapporti di potere esistenti nel Meridione dal feudalesimo in poi.

Alle soglie del XX secolo, i due maggiori poeti italiani, Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio, rievocano la campagna come luogo delle proprie origini e mondo degli affetti primordiali. Ma mentre D’Annunzio, influenzato dall’estetica del liberty e dei fauves, in versi come quelli de “La sera fiesolana” o de “La pioggia nel pineto” esalta la sensualità di una fusione pagana del corpo umano con la flora e fauna della campagna toscana, Pascoli, pur non  immune alle novità provenienti dalla poesia francese, tra cui il Simbolismo, percorre sentieri ben più profondi. Affascinato dalla sperimentazione linguistica e dall’occasione per allargare i confini del poetabile, trova nella campagna emiliana della sua infanzia un mondo attraverso il quale esprimere la sua sensibilissima affettività e la sua sofferente visione del mondo; in tal modo emergono espressioni del suo inconscio, tormentato da ombre oscure. In poesie come “Arano” e “Il gelsomino notturno” il mondo virgiliano, rievocato dal titolo della raccolta, Myricae, viene reinterpretato in chiave novecentesca, alla luce di un´ambigua sensualità e da una funerea malinconia. Sia D’Annunzio che Pascoli vivono e scrivono negli anni della svolta storica che ai primi del Novecento colpisce, trasformandolo, il mondo contadino: dopo l’unità d’Italia, i cambiamenti sociali, l´avvento del socialismo con le sue lotte, il tragico naufragio del primo conflitto mondiale, segnano la fine della società patriarcale nelle nostre campagne. Un interessante excursus storico- sociale é rappresentato dalla saga familiare del romanzo di Riccardo Bacchelli, “Il mulino del Po” (1957), ambientato nella Pianura Padana , centro nevralgico della civiltà contadina del Delta del Po ferrarese.

La campagna piemontese, ed in particolare il territorio delle Langhe, é nostalgicamente rievocata nei romanzi di Cesare Pavese, con ricorrenti accenni all’emigrazione dei suoi abitanti, con le conseguenze che ne derivarono. Ricordiamo, tra gli altri “Paesi tuoi”, “Il diavolo in collina” e “La luna e i falò”, ambientati durante il periodo del fascismo, della guerra e della Resistenza. Del mondo contadino Pavese mette in rilievo la ricchezza antropologica, un patrimonio universale sotteso alla dimensione storico-culturale; la sua ragione di narrare supera ogni intenzione neorealista e risponde alla pacata ed allo stesso tempo tragica sensibilità del romanziere

Negli ultimi decenni il romanzo italiano sembra avere sempre meno bisogno dello sfondo della campagna, anche se vanno ricordate esperienze di ritorno all’identità regionale, come le storie friulane di Carlo Sgorlon ed altri, o quelle ambientate in Sardegna da Salvatore Niffoi e Michela Murgia. Il mondo rurale appare ineluttabilmente legato al passato ed ha la funzione di contrapporsi al presente, di cui la città sembra l’habitat per eccellenza. D’altra parte è riconoscibile, nella letteratura più recente, un filone polemico, di denuncia, a cui appartengono romanzi quali “Io non ho paura“ di Niccolò Ammaniti e “Gomorra” di Roberto Saviano; in essi la campagna del Sud Italia é luogo di insediamento della criminalità  organizzata. Da questa denuncia derivano, come effetti immediati della lettura, un senso di drammatica impotenza e spesso di vergogna sociale che si auspica possano giovare alla maturazione della coscienza civile.

Non a caso Italo Calvino concluse la sua attività di romanziere con un personaggio enigmatico e quasi naif, il signor Palomar,che osserva minuziosamente, con sguardo attonito, tutto ciò che lo circonda. Prototipo dell’uomo di città, alienato e lucidamente raziocinante, Palomar sperimenta il contatto con la natura in un prato urbano, “oggetto artificiale composto di oggetti naturali, cioè erbe”. La possibilità di un rapporto non mediato con la natura sembra perduta irrimediabilmente, anche se l’osservazione dei dettagli di ogni elemento conduce il protagonista al pensiero dell´universo e della sua immensità, liberandolo così dalla prigione che si è costruito da solo.