VIAGGIO AL CENTRO DI UNA TERRA IGNOTA- PARTE PRIMA

 

 

 

VIAGGIO AL CENTRO DI UNA TERRA IGNOTA

Il simbolo Covid, innesto imprevedibile del nostro linguaggio

PRIMA PARTE

 

 

 

        di Federica Bassetti

 

La ricerca e il senso della curiosità, dicono i vecchi saggi, sono indice di vitalità. Alcuni credono che il nostro viaggio su questa Terra non sia in fondo altro che una splendida e tragica ricerca. Mi riferisco al tentativo di voler comprendere spinti dalla nostra curiosità tutta umana ciò che ci accade intorno, soprattutto in questo momento storico, che i posteri definiranno non a torto “pandemico”.

 

 

 

Una mattina, dopo aver finito di leggere “Il capro espiatorio” di René Girard, disamina storica e filosofica sullo stereotipo persecutorio insito nella società dalle epoche più remote e regalatomi per i miei 50 anni dal direttore di questa rivista e amico carissimo, Francesco Frigione, mi viene in mente di realizzare un’inchiesta; anzi propongo al direttore un'istruttoria, una raccolta di dati e di materiale informativo ufficiale, per avviare poi un percorso più profondo, all’interno del nostro linguaggio.

 

 

Francesco Frigione (foto di Ilaria Giustili, 2018)

 

Mi viene affiancato Fulvio Fabrazzo, che m’illumina su alcuni passaggi importanti della ricerca, soprattutto sugli aspetti matematici e non algoritmici dei calcoli statistici sulla mortalità giornaliera in alcune città campione in Italia, operati dall’Istituto epidemiologico della Regione Lazio e pubblicati dall’Istat.

 

 

La scheda riporta la stima della variazione della mortalità condotta dall'Istituto Epidemiologico della Regione Lazio su 19 città italiane dal primo caso di Covid-19 alla data disponibile

 

Nella mia quarantena, simile a quella di tutti, ho vissuto molti scarti emotivi e mi sono resa conto che la parola Covid ha effettivamente conquistato lo scettro multimediale, assumendosi, il nome, non il virus, la patente di universalità. I manifesti per strada, i cartelli fuori dai negozi, quelli aperti, la paura che serpeggia silente ed incredula dietro la mascherina, le automobili ferme, l’economia arrestata, gli annunci giornalieri dei tamponi, dei contagi, dei morti, e in questo modo globale - dal Messico alle Filippine, dalla Cina per prima all’Australia, dagli Stati Uniti all’Europa.  

 

 

 

In televisione, alla radio, aprendo Facebook, Instagram, Linkedin o qualsiasi altro social gli avvisi sul Covid-19 son sempre presenti, il termine Covid-19, che nel linguaggio più tecnico è, però, Saars-Covid2, non pertiene solo alla cronaca e ai telegiornali: evoca racconti, diari letterari ed emotivi, raccolti da associazioni di scrittori, provoca dibattiti, ispira poesie, eventi, stimola, contrae e dilata il magma emotivo sociale, suscita arte e cultura in modo nuovo, contagia settori anche insospettati della popolazione; consegna nuove certezze scientifiche anche ai digiuni; suscita dubbi sull’Unione Europea, sulla Cina, sulle capacità di contenimento del virus in Usa, sulla nostra legge del 1992 che norma lo stato di emergenza; sulla costituzionalità delle restrizioni; sulla presenza dei privati tra i finanziatori dell’OMS (come la Bill and Melinda Gates Foundation, finanziatore all’ 85%); sull'uso o meno di occhiali funzionali per seguire le ore di videolezioni, senza rovinarsi la vista; su Fauci incriminato da Trump; sui vaccini obbligatori o facoltativi; sul nostro sistema sanitario nazionale; sull’igiene degli ospedali.

 

 

 

 

Infermiere distanziate in Inghilterra durante l'epidemia di Spagnola che fece circa 50 milioni di vittime in Europa tra il 1918 è il 1920

 

Potrebbe bastare come raggio di espansione?  Non proprio.  Il termine Covid è ormai popolare e la popolarità si sa, crea mode, modi di dire, modus vivendi. A quanto pare, Covid è parola magica e tragica sulla bocca della gente, che più spesso si serve del più “antiquato” “coronavirus” per comunicare; ma i più informati sanno di riferirsi, in tal caso, al Virus Padre, che ha figliato nel tempo generi da lui diversi. E se questi siano per così dire, geneticamente modificati in un laboratorio, è poi dubbio ricorrente. E il simbolo Covid come ogni epidemia che si rispetti si porta dietro persino l’idea di una rigenerazione totale, della rinascita dopo il buio, della speranza di relazioni umane meno ravvicinate ma più sicure.

 

 

 

Avevo bisogno di procurarmi dei dati capaci di informarmi sulla reale contagiosità e mortalità del fenomeno che forse dovremmo chiamare influenzale, rischiando però di banalizzarlo. E allora mi ricordo di Martin Heidegger, esistenzialista del Novecento, che introducendo “I concetti fondamentali della metafisica”, scriveva: «[…] la filosofia si occupa solo di cose banali», come a dire che il pensiero umano dovrebbe occuparsi prima di tutto di ciò che riguarda i molti e non i pochi, perché le banalità, come l’editto dell’antico feudatario di una volta, il ban, appartengono a tutta la collettività.

 

 

 

E il simbolo Covid è tanto banale da diventare uno stemma di riconoscimento. Stilizzato e associato alla geometria comune, viene accompagnato in forma di disegnino, un cerchietto con quattro minuscoli raggi intorno, allo sms di conferma dell’avvenuto bonifico dell’INPS, relativo al bonus assistenziale.

 

 

 

È fuori di dubbio che il periodo che stiamo vivendo ci accomuna tutti: dalla clausura e dalla paura per l'epidemia, che molti hanno sperimentato sulla loro pelle, purtroppo, visto che nella fase iniziale nel 15% dei casi, il virus prima della somministrazione di certi farmaci, degenerava rapidamente  conducendo alla morte, la fase 2 ci sta portando ad un periodo di passaggio verso una normalità differente dall’abituale, sulla scia di fasi globalizzate, non sempre comprensibili qualora si rifletta sui dati.


E prima di riflettere bisogna leggere i documenti ufficiali, ragionare sui numeri, prendere appunti, tradurre a volte il gergo statistico, cercare raffronti con documenti precedenti, capire i processi di raccolta dei dati che riguardano i morti - i morti per influenza, i morti nel primo trimestre degli anni, i morti nell’anno solare, i morti cremati, tenuti lontani dai loro cari, sospettati di essere ancora contagiosi. 

 

 

Il grafico riportato sul sito dell’ISS che rileva lo studio statistico operato sui decessi totali secondo l’età

 

Organizzo il mio lavoro partendo dalle Istituzioni preposte al controllo dei decessi “da Covid” o “con Covid” (Covid associato ad altre patologie), che sono: la Protezione Civile; il Ministero della Salute; l’Istituto Superiore della Sanità e l’ISTAT. Ottengo qualche indicazione via mail da ISTAT e Ministero della Salute e parlo con la Protezione Civile al telefono. Mi viene confermato, avvalorando in tal modo anche le dichiarazioni del Capo del Dipartimento Angelo Borrelli, che i numeri dei decessi pubblicati ogni giorno sul bollettino della Protezione Civile, alle ore 18:00 non sono realistici.

 

 

 

Tale avviso è scritto in piccolo, ma viene riportato in alto sullo stesso bollettino. Toccherà, infatti, all'Istituto Superiore della Sanità codificare i certificati di morte e valutare gli effettivi decessi da Covid, senza patologie pregresse, per poter dare un risultato reale.

Il gruppo di sorveglianza sul Covid19, nominato dall’ISS, è composto da 61 elementi, coordinati dal professor Graziano Onder, geriatra, direttore del Dipartimento di Malattie Cardiovascolari, Endocrino-metaboliche e Malattie dell'Invecchiamento presso il Policlinico Universitario Gemelli di Roma, e i dati dei decessi da analizzare seguono questo iter: raccolti dalle Aziende Sanitarie delle Regioni, vengono spediti al Ministero della Salute, che a sua volta li consegna alla Protezione Civile. Dopodiché i dati arrivano all’Istituto Sanitario Nazionale e al gruppo di sorveglianza addetto alla loro analisi finale. 

Al 14 maggio 2020, su 29.692 decessi, di cui 24.969 sono morti tra gli over 79 e gli over 90, il gruppo al lavoro ha potuto analizzare le cartelle cliniche di un campione di 2.848 casi con una cadenza di pressappoco 500 cartelle cliniche esaminate, ogni due settimane.

 

 

 

La peste del 1630 di cui ci narra il Manzoni ne I promessi sposi, registrò 1.100.000 morti in Italia di cui colpì il Settentrione. Nel resto dell’Europa causò circa 20 milioni di vittime.

 

Il campione analizzato dall’ ISS dichiara 111 morti senza patologie pregresse, 425 con una sola patologia presente, 608 con due patologie, con tre patologie 1704. Sul numero totale dei deceduti esiste uno studio secondo l’età, e questo, si rammenti, è lo stesso numero nazionale che pubblica on-line ogni giorno la Protezione Civile e l’ISS informa, nel suo grafico più recente, della morte sui casi totali ancora da verificare del tutto, di due bambini sotto i 9 anni di età, nessun morto tra i 10 e i 19 anni, 12 morti registrati tra i 20 e i 29 anni. Il picco dei decessi, nel grafico, riguarda la fascia tra i 70 e i 79 anni (8221), tra gli 80 e gli 89 anni (12.104) e tra gli oltre 90 (4844). 

Scopro che se l’ISTAT raccoglie i dati complessivi dei decessi nel nostro Paese (non solo quelli “da Covid” o “con Covid”) dagli uffici anagrafici dei comuni, i quali consegnano la variazione anagrafica ciclicamente, avrà bisogno di almeno due anni per creare le categorie di morte: per differenziare, cioè, tra i dati complessivi rilevati, i morti da suicidio, infarto, tumore, incidente di macchina, omicidio, influenza, Covid ecc.

Niente di allegro certo, ma si muore ogni giorno e soprattutto nelle grandi città.  Il SiSMG, il Sistema di Sorveglianza della Mortalità Giornaliera, utilizzato dall’Istituto epidemiologico della Regione Lazio per studiare gli incrementi della mortalità in 19 città italiane, al 18 marzo rilevava un dato di incremento della variazione della mortalità giornaliera, nella città di Roma, dello 0% e al 28 marzo l’incremento della variazione della mortalità della Capitale sale all 1%Palermo ha avuto un incremento del 2%; Brescia del 133%; Venezia del 9%; Milano del 67%.

 

 

 

Bisognerebbe rapportare, però, le percentuali, come gli Istituti preposti fanno, ai dati dello scorso anno, per capire l’andamento della cosa e anche degli anni passati. E questo significa che, in base al sistema matematico in uso, inserite le variabili influenzali che hanno incidenza stagionale, se a Roma erano attesi 1856 decessi al giorno negli ultimi 30 giorni, i decessi sono stati realmente 1879; mentre Milano ha avuto 1753 decessi rispetto ad una attesa di 1073.

Scopro quindi, da neofita vivente, che non si attendono solo i nascituri nelle piccole e grandi città, ma anche i morti e che le epidemie influenzali sono la variabile del primo trimestre dell’anno, già stimata dai ricercatori. Ecco perché le madri, quelle più accorte, somministrano ai loro figli le cure ricostituenti indicate prima dell’inizio di ogni nuovo anno.

 

 

 

 Lo studio che svolgo riguarda anche l’incidenza dei dati sulla popolazione delle città a campione e delle regioni colpite.  Mi immergo nella mia ricerca, ma rischio ad un certo punto di sentirmi accerchiata dai vari canali di informazione ufficiale e non, dalle interviste ai virologi o ai medici contrari all’ordinanza di Zingaretti sui vaccini, alle giuste misure di sicurezza e di igiene da seguire quotidianamente, e forse sono ingenuamente romana nel chiedermi, visto che anche il quotidiano La Repubblica pubblica il dato sulla variazione di mortalità di Roma nel trimestre gennaio-marzo 2020 che è del -9,4% e attenzione al segno meno davanti al numero, perché non abbiano riaperto per lo meno le scuole nelle Regioni dove l’impatto epidemico, a livello della mortalità, era debole all’inizio della quarantena e lo è ancora, dopo il contenimento, soprattutto per i giovani che non sembrano essere stati toccati dal fenomeno nella sua accezione “grave”, se non in casi molto rari.

 

 

 

Ed ecco affiorare il primo fraintendimento linguistico quando decido di non prendere in considerazione i bollettini della Protezione Civile, che forse non andrebbero proposti al pubblico, visto che non sappiamo ancora molto di quei numeri e visto che si tratta di morti Covid non accertati ancora del tutto e rappresentati dai numeri, rifletto sulla sacralità della morte fornita in numeri non chiari. Il fraintendimento su cui mi sembra si possa basare la comune percezione del terrore, alimentato dai social e dai media fino al parossismo è molto banale e sembra banalizzare l’intera ricerca.

 

 

 

Mi riferisco al termine “positivo”, di significato ambiguo, perché non è chiaro alla popolazione se rilevi il contagiato infettivo. Siamo abituati infatti a considerare “positivo” per tutte le malattie infettive colui che dalle analisi appropriate, risulta avere gli anticorpi per quella determinata malattia: “positivo” non è nel linguaggio corrente sinonimo di untore, anche se sieropositivo nel caso dell’AIDS lo è eccome, ma vuol significare per noi che una persona positiva è sana, proprio perché il suo sistema immunitario ha lavorato bene difendendosi come per tanti altri virus o batteri e dimostrandosi funzionante e reattivo.  

 

 

 

Nei bollettini della Protezione Civile sono elencati anche il numero dei tamponi fatti nel periodo considerato, il numero dei contagiati, dei ricoverati e dei guariti e anche il numero dei pazienti sottoposti a terapia intensiva. Ma, se i ricoverati sono sottoposti a più di un tampone, i dati dei tamponi possono non corrispondere. E come calcolare la contagiosità del virus, se i tamponi rilevano solo la “positività”?  La contagiosità del positivo infatti non è dimostrata. I sindaci dei nostri comuni però, hanno istituito le zone rosse sulla base del numero dei positivi e dei contagiati, non sulla base dei deceduti. E questo complica ancora una volta la ricerca che può solo restringersi ai dati della mortalità, senza considerare, ai fini della ricerca stessa, la rigidità o meno delle restrizioni.

 

 

 

Nel frattempo, il mito COVID avanza inarrestabile, spazzando via il vecchio, e lo fa sulla scia di un processo persecutorio innescato a nostra insaputa nel fondo di ognuno di noi e che modifica il nostro modo di percepire il mondo e di nominarlo attraverso il linguaggio che ci è proprio: il virus ci perseguita, la paura ci perseguita, il senso di colpa ci perseguita. La “peste” bussa alla nostra porta ed è difficile difenderci, perché se non siamo contagiati dal virus, lo siamo dal nome o dalla sua carica persecutoria, che contiene in sé l’altra faccia dello stereotipo sanguinario insito nella comunità umana dei vivi, come ogni simbolo che si rispetti, la rigenerazione, il perdono, la pulizia da ogni colpa.

 

 

 

Si va alla ricerca di un nemico comune quindi, di un capro espiatorio: è colpa della Cina; o forse è una guerra batteriologica; è colpa dei politici; del sistema ospedaliero scarnificato da noi come in Spagna e che ha lasciato allo scoperto medici e infermieri; è colpa delle RSA dove sono morti in tanti; è colpa nostra, in fondo, perché ci interessiamo di questo soltanto adesso e ognuno di noi, chiuso in casa, tra fallimento, disperazione, costrizione, ha sviluppato la vergogna e la solitudine del carcerato, costretto a canticchiare sul terrazzino di casa per dare voce alla malinconia e alla sospensione da ogni mondo reale. In attesa di una assoluzione.