AFRORE E TURGORE

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SPRECO DI TEMPO

AFRORE E TURGORE

 

 

 

Mette Vergesen

AFRORE E TURGORE

La scomparsa del sesso nell'era della tecnica e l’alveare meccanico

         Edizioni Il Muttino, Bologna, 2018

Pagine 2929, € 69,00

 

di Ugo Derantolis

 

        Mette Vergesen è una antropologa e sessuologa danese di celebrata fama. Il suo campo d’indagine è particolarmente intrigante: le interazioni tra sviluppo economico, credenze magico-religiose, organizzazione sociale e pratiche sessuali. Titolare presso l’Università di Aarhus del primo istituto di ricerca al mondo di “Relazioni Sociosessuali”, si avvale di un corpo di fedelissime allieve, gravide di entusiasmo, che la coadiuvano nelle ricerche svolte negli angoli più remoti del pianeta. Mette le definisce, con orgoglio, «Le mie amazzoni» e da esse non si separa mai. Questa preferenza per le discepole ha suscitato aspre polemiche in ambito accademico e le ha anche procurato delle noie legali, essendo stata accusata di discriminare il genere maschile e la comunità gay; ma la Vergesen ha sempre ribadito, e provato, che le collaboratrici scelte erano le più idonee a svolgere le delicate indagini sociosessuali. E fino adesso è stato impossibile darle torto. 

In passato, numerosi studi della Vergesen sono apparsi nelle più autorevoli riviste specializzate internazionali, suscitando clamore nel mondo scientifico: un esempio è il ficcante Penetration and Oil extraction (apparso nel Journal of Social Psychology and Epidemiology del dicembre 1997). L'articolo raccoglieva le testimonianze di consorti e amanti di emiri arabi in merito all’attività sessuale dei loro partner, dimostrando in modo incontrovertibile che la focosità erotica seguiva fedelmente le oscillazioni del prezzo del brent e i profitti degli investimenti azionari.

Un altro studio illuminante, che ci riguarda molto più da vicino, è apparso nell’anno 2003 sulle pagine del Journal of Human Sciences con il vivificante titolo di Italians do it better. Si tratta di un’accurata comparazione delle capacità amatorie dei bagnini del Sud Europa, di cui all’estero si è sempre favoleggiato, anche a sproposito. Per una volta, però, il luogo comune ha trovato ampia rispondenza nella verifica scientifica: per cinque anni consecutivi Mette e le sue discepole hanno battuto con un grosso caravan i lidi italiani, francesi, spagnoli, portoghesi, greci e croati, compulsando in prima persona le performance di maschi volontari che si sono prestati all’esperimento, misurandone, nell’arco delle 24 ore, qualità oggettive come la capacità erettiva, la frequenza del coito e la resistenza fisica. Il risvolto più stimolante dell’indagine è rappresentato, però, dal riuscito tentativo di dare un volto più caldo e personale alla piatta esperienza sessuale; infatti nella valutazione sono entrate voci come la disponibilità dei bay-watchers a sorridere, a complimentarsi per la procacità delle ricercatrici, a prodigare loro adeguate attenzioni, a sussurrare parole infuocate durante l’amplesso e a prodursi in gentilezze di varia natura, prima, durante e dopo la prova. Come anticipato dal titolo, al termine del duro lavoro di raccolta da parte dell’équipe danese, l’analisi dei dati ha evidenziato un netto primato dei nostri guardaspiaggia rispetto alle prestazioni dei loro colleghi stranieri. In particolare, si sono segnalati alcuni preparati professionisti del litorale romagnolo, pugliese, siciliano, campano, laziale e sardo. Il coacervo di fattori che sta dietro questo exploit, secondo la Vergesen, è il forte desiderio di esibire una prestazione memorabile, unito a una venerazione religiosa per la figura della madre e della Vergine Maria, che paiono essere parte inalienabile del côté maschilista della popolazione saggiata. 

Da qualche anno, però, Mette Vergesen ha cercato di sfondare le porte della comunità scientifica destinando la sua acuta riflessione anche al grande pubblico: ne sono nati libri straordinari in cui emerge non solo il frutto di anni di intense ricerche sul campo, ma affiorano anche originalissime riflessioni sulla società postcapitalistica, globalizzata, “liquida” (Zygmunt Bauman), retta dai “legami deboli” (Mark Granovetter), caratterizzata dalla frammentazione degli stati, da migrazioni di massa, da sperequazioni vecchie e nuove, da inefficienze, ingiustizie, discriminazioni e rigurgiti nazionalistico-fascistoidi, da autoritarismi e decadenza delle democrazie, ma anche da enormi possibilità di sviluppo e di evoluzione economica, sociale, culturale e spirituale. Ne è testimonianza il ponderoso studio dedicato al continente del domani, l’Africa: Africans do it better. The present and the future of Humankind according to Sexual capability of its subsaharian male members, tre suggestivi volumi, impreziositi da un mirabolante corredo iconografico, un DVD e una miniatura in PVC del dio itifallico yoruba Eshu/Elegba (il formato de luxe, del 2008, è uscito in tiratura limitata a cura della prestigiosa Kinsey Institute Stuff Edition e ad esso ha fatto seguito, appena sei mesi dopo, la versione economica stampata dalla londinese Black Stallion Books, che ha venduto centinaia di migliaia di copie nei paesi anglosassoni ed è stata presto tradotta nelle più diffuse lingue del mondo, tranne che in italiano).

Il protratto disinteresse esibito dalla nostra scena nazionale nei confronti delle opere della Vergesen appare eclatante e sospetto, tanto che si è sussurrato di un’occulta azione censoria del Vaticano ai danni del pamphlet del 2014, oramai già bello che tradotto dalla rinomata casa editrice La terza misura di Roma, intitolato Abbasso la pregna! Si tratta di uno scritto breve, agile, nervoso, eppure di massimo interesse per il nostro territorio, afflitto da marcata denatalità e per altro direttamente toccato dall’indagine da cui procedono queste conclusioni. La luminare danese vi espone, infatti, le idee maturate sul rapporto che intercorre, nelle società più ricche, tra libertà sessuale e di scelta delle donne, miglioramento del loro livello di istruzione e di status economico e decisione di non procreare. Il libro sgorga da una ricerca quadriennale eseguita su un vasto campione di popolazione femminile dislocato in dieci metropoli: Tokio, Nuova Delhi, San Paolo, Toronto, New York, Londra, Parigi, Monaco di Baviera, Milano e Stoccolma.  La perturbante previsione di Mette Vergesen è che, in definitiva, nulla spinga più le donne indipendenti alla gravidanza, considerata altamente improduttiva e vincolante, tanto che essa si andrà profilando sempre più come un’esperienza marginale riservata alle classi privilegiate o, all’opposto, a quelle più indigenti, vulnerabili e ancora intrise di valori tradizionali, quali, ad esempio, le giovani immigrate. L’Autrice prevede che nei prossimi trent’anni, nei paesi avanzati, si darà avvio a una gestazione completamente in vitro e che la maternità biologica diverrà sempre più rara, solitaria, slegata dal sesso e persino dalla relazione sentimentale con un partner. È una tendenza, chiosa infine la Vergesen, che progressivamente si estenderà a tutte le società del pianeta, a meno che non mutino in maniera radicale le strutture politico-economiche attualmente vigenti.

Alla mancata pubblicazione di Abbasso la pregna! viene finalmente posto riparo dalla coraggiosa scelta dell’editrice Il Muttino di Bologna di dare alle stampe l’ultima fatica della Vergesen (2018), Afrore e Turgore. La scomparsa del sesso nell'era della tecnica e l’alveare meccanico. Il ponderoso saggio filosofico presenta forti tinte autobiografiche e affonda le radici nella visione pessimista-pansessualista di Schopenhauer, nel tormentato esistenzialismo kierkegaardiano, nella metapsicologia freudiana e nella fenomenologia di Martin Heidegger: Rappresenta la naturale continuazione del discorso precedente, ma anche il suo assoluto superamento, e vede la luce in contemporanea anche in altri trentadue paesi. In effetti, qui le deduzioni e le intuizioni della studiosa paiono librarsi, senza più ripararsi dietro lo scudo della ricerca “oggettiva”. Non che la Vergesen la ripudi - tutt’altro! - ma si consente di lasciarla come sfondo su cui si denudare la propria anima speculativa. È un’operazione coraggiosa ed eccitante quella a cui assistiamo sin dalle prime pagine del libro, dove Mette intreccia l’origine tedesca del proprio cognome (Vergessen, con la doppia esse, che in quell’idioma significa  “dimenticare”) alla tragica fuga di una sua ava, avvenuta a fine Ottocento, dalla Pomerania alla più tollerante Danimarca. Il motivo della migrazione era la persecuzione inflittale per la licenziosità dei suoi costumi. La giovane Elizabeth, infatti, figlia di un piccolo notaio di campagna, intratteneva disinibite relazioni con vari uomini e intendeva mantenere una vita indipendente, ribellandosi all'ordine genitoriale di sposarsi con uno tra i plausibili padri del bambino che recava in grembo. Furono suo padre e i fratelli a condurla in giudizio, ottenendo di diseredarla e persino di revocarle il cognome di famiglia, costringendola ad allontanarsi dalla comunità. La ragazza, tra mille peripezie e con l’aiuto di uno dei suoi amanti più devoti, riuscì a riparare in nave in Danimarca. Lì, orgogliosamente, volle fregiarsi proprio di quella condizione di “dimenticata” che le era stata spietatamente imposta, facendo suo quel verbo che implicava una permanente condanna alla rimozione e il bisogno di cancellare dalla propria storia il peso di un passato crudele. Quel cognome così ingombrante, tramandato al bambino che nel frattempo le era nato, nel nuovo ambiente si danesizzò, perdendo una esse e mutando, appunto, in “Vergesen”. Ora, sostiene l’Autrice che, nomen omen, l’impulso a rammentare e sé e agli altri la radice istintiva delle proprie scelte solo in apparenza razionali, l’origine ferreamente biologica e sessuale delle strutture e delle sovrastrutture sociali, la cecità che questo disconoscimento della natura umana comporta nelle vicende politiche, sociali ed economiche, è sempre stata la vocazione della sua vita, sin da bambina. Ciò che il tempo le ha donato è soltanto di renderla più sensibile a questo ineludibile richiamo. La Vergesen passa così a rievocare velocemente la sua biografia e la brillante carriera, ma senza ostentazione alcuna, anzi, mostrando come ai radi istanti di sfrenata soddisfazione siano sempre seguiti lunghi e opprimenti periodi di tristezza, di desolazione e di noia. Gli unici antidoti alla sofferenza sono stati, dunque, la ricerca sul campo, così vitale, eccitante, inebriante, e la scrittura. Ne sortisce il ritratto di un’eroina solitaria, malgrado la costante compagnia di cui si è contornata, e talvolta persino disperata, tanto da accarezzare in più occasioni l’idea del suicidio. Diventare cosciente, approfondire le questioni che altri trascurano, puntare in alto, osservare le interazioni tra le cose più diverse senza confondersi, comporta un costo enorme in termini psichici e fisici, così come all’umanità tutta costa uno sforzo gigantesco divincolarsi dalla presa degli istinti primitivi, strenuamente mascherati affinché possano continuare a vivere in un mondo che si ostina a rinnegarli. 

Da questa premessa esistenziale parte la riflessione filosofica vera e propria che traccia una sconfortante mappa della realtà odierna, con tanto di diagnosi e prognosi. Incamminatasi a grandi passi verso l’estinzione, secondo la Vergesen, perché motivata a far godere vicariamente le macchine e non gli esseri umani, la nostra specie è condannata. La Vergesen è convinta, infatti, che l’angosciante paradiso tecnologico che si profila sulla Terra (e da lì nello Spazio), non contiene alcun posto per un animale emotivo e tragicamente imprevedibile come l’Uomo. Sul piano psicologico, questo presunto paradiso somiglia enormemente, invece, a un mostruoso “alveare meccanico” (mechanical hive). Nella distopica premonizione della studiosa danese, all’umanità sarà concesso di vivere forse un’esistenza di risulta in qualche zoo planetario o extraterrestre, nel quale regredirà a un’esistenza di istinti ed emozioni primarie. Ciò, per lo meno, finché le macchine padrone non decideranno altrimenti: “soluzione finale” o nuovo tipo di evoluzione eteroguidata, chissà…

Malgrado le tinte corrusche possano affliggere il lettore impreparato, quest’opera è intrisa di un sentimento grandioso, cosmico, divino, ai limiti dell’intollerabile, che costringe ciascuno di noi a compiere uno sforzo di rinnovata consapevolezza.