PORGY AND BESS

PORGY AND BESS

 

 

 

        recensione di Vincenzo Basile 

        fotografie di Valter Berecz/Hungarian State Opera 

        fonte: Agenzia Radicale

 

Porgy and Bess

Teatro Erkel di Budapest

Nata nera, rifatta in bianco, appare ingrigita ma non per l’età.

 

Oltre a essere di gran lunga l’opera più nota dell’intera produzione americana, Porgy and Bess è stata quella dalla storia certamente più travagliata e questa versione, in scena al teatro Erkel di Budapest, non fa eccezione, anzi.

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Ira Gershwin, autrice del testo, l’aveva disposto a chiare lettere nelle sue ultime volontà: Il cast dell’opera, nelle sue edizioni successive, dovrà sempre, assolutamente, essere formato da cantanti neri.

Il senso e la ragione di questa condizione, fortemente condivisa anche da suo fratello George e da DuBose Heyward, autore del libretto, fu di preservare l’autenticità della storia. Anche a costo di una limitazione della sua diffusione. Tanto che quando il titolare dell’agenzia americana che ne tutela i diritti concesse il nulla osta all’Opera di Budapest non si aspettava che poi qualcuno pensasse di fare di testa sua. Eppure per scopi artistici, ma non solo, così è accaduto al Teatro Erkel, l’altra sera e per le successive repliche. E’ andata in scena una Porgy and Bess tutta bianca o quasi. Solo due personaggi erano di colore: due poliziotti nell’esercizio delle loro funzioni.

A sostegno della scelta, peraltro non inedita, il direttore dell’Opera di Budapest, Szilveszter Okovacs, ha distribuito in conferenza stampa un articolo del 2002 di Anthony Tommasini, autorevole critico del New York Times dell’epoca, che elenca una quantità di illustri precedenti nei quali non si tenne conto del physique du rôle o della razza nella distribuzione dei ruoli. E’ così ci ricorda un Pavarotti che prestò la sua stazza a Rodolfo, bohemien pucciniano, smagrito- per-fame, l’Otello bianco di James Mc Craken e la Desdemona nera di Shirley Verret, entrambi però saggiamente autenticati dal trucco di scena.

 

 

 

Il giornalista arriva a giudicare discriminatoria la coerenza razziale in materia di distribuzione dei ruoli nei confronti degli artisti bianchi e di conseguenza limitativa per la diffusione dell’opera e penalizzante riguardo i profitti attesi.

Cosa resta delle raccomandazioni degli autori, ossequiosi della veridicità dei contenuti e della consistenza simbolica dello spettacolo, secondo questa analisi, se non l’inconsistenza di poche, pedanti, trascurabili velleità?

 

A partire dall’esordio, il 10 ottobre 1935 all’Alvin Theatre di Broadway, che non era un’Opera House, P&B apparve da subito come un’opera scomoda. Essendo il back ground culturale l’essenza del racconto, l’autore la definì una folk opera, determinato e irriducibile nell’assoluta necessità di un total black cast.

Non fu però dello stesso avviso, l’establishment dell’epoca.

Che a una storia di ordinary slums fosse data dignità culturale, che eroi ed eroine fossero negri, che il sogno americano apparisse ancora sbiadito dalla scia dell’infausto ’29 non era ammissibile. La contaminazione dei sovrani canoni melodici europei da parte di un’eresia musicale iconoclasta tutta ancora da gestire, Jazz e vade-retro-Blues non poteva varcare le porte del Tempio. Ma più di tutti poté l’assodato rifiuto da parte dei teatri americani, di accogliere artisti neri negli spettacoli operistici.

 

 

 

Dati gli antefatti recenti e remoti, il sospetto che lo sbiancamento abbia ragioni inconfessabili o quantomeno insostenibili, certo non è facile da rimuovere quanto da suffragare.

 

La storia è basata sul romanzo PORGY di Heyward e sull'omonimo lavoro teatrale che egli scrisse insieme alla moglie Dorothy, che descrive la vita degli afroamericani di Catfish Row, immaginaria periferia di Charleston, Carolina del Sud, all'inizio degli anni trenta.

Porgy, è un uomo di colore che tenta di salvare Bess, la donna della quale è innamorato, dalle grinfie di Crown, il suo protettore, e di Sportin' Life, lo spacciatore del quartiere.

 

 

 

L’Erkel è pieno per uno spettacolo che parte pigramente, languendo per i primi due atti sia sulla scena che nel golfo mistico. Le coreografie annaspano asfittiche nei percorsi e sempliciotte, scialbe, nella frontalità visiva.

L’orchestra esegue senza verve una partitura che, nonostante la ricchezza degli stimoli che tradizionalmente elettrizzano il pubblico, sorprendendolo con la sua imprevedibile architettura, qui rimane ingessata nello spartito. Nessuno certo può onestamente aspettarsi i brividi delle Big Jazz Band statunitensi ma l’orchestra dell’Opera deve essere pur sempre essere in grado di offrire una esecuzione professionalmente dignitosa, dato lo standard tecnico di quella élite di strumentisti.

È all’ attacco del terzo atto che la speranza sembra concretizzarsi e attestarsi per poi di nuovo afflosciarsi nell’affrontare le varianti ritmiche e lo sviluppo successivo più complesso del racconto musicale.

Qualche imbarazzo è inevitabile dall’ascolto del testo, rimasto evidentemente integro, di alcuni recitativi. Come quando il mendicante-bianco descrive polemicamente le elemosine raccolte come: “i soldi dei bianchi” o nel momento in cui un altro personaggio, bianco anche lui, ritorna “dall’ospedale dei bianchi”.

        I cantanti, tutti, fanno del loro meglio ma risultano slegati da un amalgama che la compagnia stenta a raggiungere. Ognuno esegue come in solitario e a suo modo e i ruoli sembrano equivalersi, principali ai secondari. E come se mancasse la testa o meglio le teste a capo degli attori, dei cantanti, dei ballerini e dei musicisti.

Il pubblico non si lascia però scoraggiare e coglie gli slanci pur presenti durante l’arco narrativo, per gioire delle note più felici che a tratti travalicano la scena.

Sul palcoscenico troneggia la statua di un angelo pietoso, dal capo reclinato.

Reca sul petto una scritta luminosa: PROMISE; patetico monito per tutti, a non prestargli fede.