IL POLITROPO CASANOVA (LA NECESSITÀ DI ESSERE AMATO)

IL POLITROPO CASANOVA

LA NECESSITÀ DI ESSERE AMATO

 

 

 

di Ivan Battista

 

«Il nostro entusiasmo amoroso viene sempre vissuto dagli altri come una manifestazione pericolosa, destabilizzante, che può mettere in crisi i loro schemi e strutture relazionali.»

Aldo Carotenuto, Eros e Pathos

 

L’amore è sempre impossibile, perché è il desiderio oscuro e profondo di un ritorno all’eden dell’amore materno primario che non potrà mai più realizzarsi. Nessun adulto, sia esso uomo che donna, potrà mai riaccomodarsi in grembo a sua madre. Oltre che scomodo fisicamente, sarebbe insano psicologicamente. Ecco perché la psiche umana ha creato l’archetipo della “Grande Madre ausiliatrice e consolatrice” a cui rivolgersi, in maniera molto più comoda e affatto criticabile, in caso di “bisogno”.

 

Da Demetra a Ishtar, da  Iside alla Madonna ogni cultura ed ogni religione ha prodotto la propria figura simbolica femminile amorevole e premurosa alla quale appellarsi nei momenti difficili, proprio come fa il bambino quando si trova in difficoltà e chiama la mamma. In effetti, se s’intende l’amore quale relazione in cui circola un affetto incondizionato e oblativo, la prima vera e importantissima esperienza amorosa è quella che si ha con la propria madre. Ovviamente, dalla qualità e dal tipo di relazione primaria materna riceveremo un imprinting che condizionerà lo stile e la natura dei nostri rapporti affettivi e, soprattutto, amorosi (Bowlby, J., 1979). Se la relazione sarà stata buona e la madre sarà stata equilibrata, dolce e amorevole, cercheremo con nostalgia nel femminile adulto le caratteristiche di equilibrio, dolcezza e amorevolezza nonché saremo attratti dai tratti somatici che si avvicinano a quelli della genitrice.

 

 

 

Questo possibile tipo di attrazione, per lo più inconscia, è definita: “per simiglianza”.  Inversamente, se la madre sarà stata poco stabile, anaffettiva e troppo severa, potremmo essere egualmente attratti dalle qualità di dolcezza e amorevolezza del femminile, ma “per compensazione”, tenendoci lontani dalle caratteristiche materne. Lo stesso discorso lo si può fare col femminile per il quale il rapporto col padre, oltre che comunque quello col materno, può determinare le scelte future inconsce nelle donne. Ovviamente, l’argomento è più complesso e variegato; ci sono, ad esempio, legami che sorgono all’insegna del patologico ed entrano in gioco mille altre sfaccettature (Crocetti, G. 1997), ma per rendere l’idea di quanto sia importante il rapporto con le nostre agenzie sociali primarie, in genere i genitori, e per la tesi che voglio sostenere in questo mio elaborato, può essere sufficiente accennarlo così.

 

 

 

Di Giacomo Girolamo Casanova è stato scritto moltissimo, ma credo che in pochi abbiano aperto il loro contributo definendo la psicologica del veneziano. Stando a ciò che ho studiato su di lui e, soprattutto, rileggendo con attenzione le sue memorie, dove parla direttamente al lettore e, sembrerebbe, con molta sincerità, credo di poter azzardare una descrizione psicologica del carattere del nostro veneziano: una tendenza alla volubilità e alla non costanza rispetto agli impegni e alle situazioni di vita. Sicuramente non era uno schizoide. Schizo (Σχίζω) è un verbo greco antico che vuol dire “dividere”. L’Io di Giacomo era certamente poliedrico e “diviso” in tanti aspetti ai quali hanno corrisposto altrettante possibili carriere, tutte regolarmente non riuscite nonostante, inizialmente, ottenesse di avviarle con apparente destinazione di successo. Non era, però, schizoide inteso nel senso patologico del termine. Una personalità complessa e un’intelligenza fuor di dubbio quella del famoso veneziano. Versatile in ogni campo, era in grado di destreggiarsi in ogni professione, quasi fosse un “ruolo da interpretare” al meglio. Nel corso della sua esistenza si trova ad essere un: «avvocato, ecclesiastico, ufficiale, storiografo, filologo, romanziere, giornalista, filosofo, agente segreto, finanziere, industriale, teatrante, suonatore di violino, spia e tant’altro». “Politropo” lo avrebbe definito Omero, però con una caratteristica psicologica che lo differisce da Ulisse: l’incostanza e la scarsa perseveranza nello stabilizzare l’obbiettivo una volta perseguito. La sua curiosità nei confronti del mondo (di quello femminile in particolare) è distraibile e si lascia facilmente fuorviare a causa di una determinazione non del tutto ferma. Segue il principio del piacere ottenibile senza troppo sforzo Giacomo e finanche nelle conquiste amorose preferisce le donne né troppo facili né troppo difficili, dedito al detto di Marziale Nolo nimis facilem difficilemque nimis (Libro I, 57, 2).

 

 

 

Questo suo aspetto d’incostanza, che crescerà con l’età, non gli permetterà di finalizzare al meglio le sue indubbie doti d’intelligenza e lo relegherà ad una dimensione dilettantistica in tutto ciò che affronterà come carriera. Perfino come mago e baro non ha molto successo ed è surclassato, almeno nel loro periodo in auge, da personaggi come Cagliostro e Saint-Germain. Questo non vuol dire assolutamente che Casanova era un malato mentale non in grado di provvedere a se stesso, ma soltanto che -con ogni probabilità- aveva alla base della costituzione caratteriale alcuni peculiari complessi psichici che ne hanno influenzato lo sviluppo della personalità e anche il percorso di vita.

 

 

 

Giacomo resta orfano di padre all’età di otto anni ed è affidato alla nonna materna, Marzia Baldissera in Farusi, poiché la madre Giovanna Maria Farusi (“Zanetta” per gli amici e conoscenti) non può prendersi cura di lui. Giovanna Maria (detta la “Buranella”, poiché nata nell’isola di Burano), attrice di un certo rilievo era sempre in giro per tournée teatrali. Il contemporaneo Carlo Goldoni la definisce: «Une veuve très jolie et très habile» (Goldoni, C., 1787) e sembra che la stimasse molto, tanto da comporre per lei un’ottima commedia intitolata La pupilla.

 

 

 

“Lasciato” dal padre in tenera età (Gaetano Casanova muore il 18 dicembre 1733), trascurato dalla madre per motivi di lavoro, Giacomo assapora l’amara sensazione del sentirsi solo. All’età di nove anni, molto cagionevole di salute, fu messo a pensione nella città di Padova, presso una vecchia schiavona (slava della costa adriatica) alla quale offrirono sei zecchini per i primi sei mesi. Il signor Baffo, grande amico del padre, descritto da Giacomo come: “Genio sublime, poeta versato nel genere lubrico”, vista la cattiva salute del fanciullo, consultò per lettera (allora si usava anche così) il famoso medico patavino Alessandro Knips Macoppe, il quale sentenziò che il piccolo dovesse cambiare aria. Fu per merito del signor Baffo che il nostro veneziano andò a pensione, probabilmente salvandosi la vita, nonostante la pessima qualità dell’accoglienza. Con la modesta somma di uno zecchino al mese la schiavona doveva dargli da mangiare, tenerlo in ordine e mandarlo a scuola. I suoi referenti: «Lasciarono che si lamentasse per l’esiguità della somma, mi abbracciarono ordinandomi di obbedire sempre ai suoi ordini, e mi lasciarono. Fu così che si sbarazzarono di me.». (Casanova, G., 1822)

La personalità abbandonica è sempre in cerca di qualcuno da amare e dal quale farsi amare. L’abbandonico cerca compulsivamente l’amore, quell’amore che non gli è stato concesso, per esorcizzare l’ansia derivante dal suo sentimento di solitudine e dello svilimento della sua persona dovuto alla paura di non valere l’amore di chi lo ha abbandonato o male amato. La “ferita dei non amati o dei male amati” (Schellenbaum, P., 2002) produce un atteggiamento psichico di disistima del sé e, spesso di contro, una necessità impellente di ricevere conferma da parte di qualcuno che lo ponga al centro delle sue attenzioni amorevoli. Contemporaneamente, per annullare lo scarso valore percepito di sé, il non amato può anche reagire costruendosi un sé grandioso proprio a difesa del suo essere così dolorante e vulnerabile. L’esperienza affettiva primaria, molto carente, ha procurato a Giacomo una “mancanza di base” (Balint, M., 1967) che gli farà percepire, in modo costante, un vuoto amoroso da riempire ad ogni costo.

All’angoscia esperita a causa dell’ “abbandono” delle figure genitoriali Giacomo contrappone con reiterazione ciò che lui percepisce come l’unica vera “medicina” in grado di curarla: l’eros. A complemento, si costruisce un Io che sappia di valore, studiando e acculturandosi molto. È vero che la madre non si disinteressa del tutto di lui, e che nonna Marzia fa quello che può per seguirlo, ma è anche vero che Giovanna Maria lo fa “a distanza”. Giacomo, abbiamo detto, è mandato molto giovane a stare, insieme con altri bimbi suoi coetanei, in un pessimo posto gestito da una vecchia megera che lo tratta a dir poco male. Il giaciglio pieno di parassiti quali i pidocchi, il cibo scarso, cattivo e insufficiente e i maltrattamenti subìti fanno decidere a nonna Marzia di toglierlo di lì. Il fanciullo è ancora in scarsa salute.

Secondo René Spitz (1945) la depressione anaclitica del bambino deprivato dell’amore materno attraversa quattro fasi:

1)   la fase della protesta;

2)   la fase della disperazione;

3)   la fase del rifiuto;

4)   la fase del distacco.

Da quanto scrive nel secondo capitolo delle sue Memorie, sembrerebbe che Giacomo sia transitato direttamente alla quarta fase:

“Non mi sentivo né felice né infelice; non dicevo niente. Non avevo né rimpianti né speranze, né curiosità; non ero né allegro né triste.”.

È quasi un atto dovuto, se non scontato, che Giacomo si aggrappi all’amore delle figure femminili da lui valutate degne. Infatti, quando è mandato a scuola da un giovane prete, il dottor Gozzi, ne conosce la sorella Bettina che possiamo dire è stata la prima figura femminile della quale il fanciullo “s’innamora”. L’innamoramento va inteso, anche e soprattutto nel caso di Giacomo, quale strategia di sopravvivenza psicologica.

Non era un narcisista patologico, Casanova, presumibilmente perché la sua carenza affettiva primaria non è stata poi così pesante. In fondo, ha avuto chi si è preso cura di lui, anche se in maniera non del tutto dedita. Aveva sì alcune colorazioni narcisistiche, ma non morbose, tant’è che riusciva a rendere transitivi sia la sua libido sia il suo sentimento per capitalizzarli sui suoi “oggetti d’amore”. In psicanalisi delle relazioni oggettuali si definisce “oggetto d’amore” la persona investita dalla nostra energia libidica che è psichica in senso lato ancor prima che strettamente sessuale. Per dirla freudianamente, potrebbe aver avuto un complesso d’Edipo irrisolto carico di sensi di colpa, visto che il padre muore quando era ancora un bambino e forse Giacomo non lo aveva ancora superato (l’Edipo). Con una madre così bella, brava e giovane per cui, vedova, molti uomini ancora la chiedevano in sposa, questa evenienza non è da escludersi. Giacomo, con ogni probabilità, ha cercato nei volti leggiadri e attraenti delle donne della sua vita, il volto di questa avvenente madre “discosta”. Madre “né troppo facile né troppo difficile”, cioè: né troppo vicina né troppo lontana.

 

 

 

L’escluso dall’amore primario rischia di restare per sempre un escluso dal mondo perché il dispiacere provato inconsciamente,dovuto a quel amore non ricevuto, lavorerà, nascosto, come un devastante sabotatore interno se non lo si elabora e non lo si risolve in qualche modo. Il tradimento del non amore  ricevuto o del poco amore ricevuto colorerà la personalità del “non amato”. La possibilità di sviluppare una personalità aggressiva, polemica e, nel migliore dei casi, inconcludente è molto alta. Il paradosso sta nel fatto che la vis polemico/aggressiva, scaturita dall’esclusione dall’amore primario, spesso, invece di muoversi in modo pacato e intelligente verso una pianificazione dell’inclusione, si dirige esattamente nella direzione contraria. Nonostante gli sforzi per essere riconosciuti e inclusi, sovente, a causa della qualità di specifiche azioni polemiche e aggressive, il male amato si esclude, restando ai margini dell’ambito in cui vuole entrare. In molti destini, dunque, non è una contraddizione in termini se troveremo che ogni azione, ogni comportamento dell’escluso saranno rivolti al raggiungimento dell’inclusione, nella quasi totalità dei casi senza successo.

Dunque, l’aspetto compulsivo/ossessivo nella psiche di Casanova, non era tanto quello relativo alla necessità di sedurre quanto, piuttosto, quello di voler diventare una persona importante , uno che conta e di poter accedere, accolto, nella parte nobile e ricca della società veneziana. Paradossalmente, però, gran parte di quelle stesse azioni e di quei comportamenti che lo conducono a realizzare ricchezza e buone posizioni sociali lo portano ad autoescludersi da quella realtà considerata e benestante, quasi ci sia un “sabotatore interno” nella sua struttura psichica che gli smonti sistematicamente ogni successo, ogni buona meta raggiunta.

La vita di Giacomo Casanova raccontata “da lui medesimo” è pressoché paradigmatica rispetto all’esclusione. Come se esistesse davvero un destino avverso, l’avventuriero veneziano si trova a raggiungere ed ottenere promettenti accoglienze. È ricevuto in ambienti altolocati dove gli si aprono lusinganti carriere, tranne poi dovervi rinunciare a causa di eventi imprevedibili o, più facilmente, a causa di sue gesta e scelte compiute all’insegna del piacere, dello sperpero, ma anche del sentimento amoroso, dell’empatia e del disprezzo. Sentiamolo parlare: «Il tempo dedicato al piacere non è mai perduto; il solo tempo perso è quello che si consuma nella noia; e un giovanotto che si annoia si espone alla disgrazia di innamorarsi e di essere disprezzato.».

Giacomo passerà tutta la vita nel tentativo di entrare a pieno titolo nell’ambiente nobile di ciò che di lì a qualche anno diventerà l’ancien régime, ma ne resterà sempre ai margini. Auto proclamatosi “Cavaliere di Seingalt”, nominato nel 1760 “Cavalier dello Speron d’oro” da papa Clemente XIII (Carlo della Torre di Rezzonico, veneziano come lui) Giacomo mostra grande premura nel mettere in evidenza questi suoi titoli. A parte il cavalierato di Seingalt, sembra di sua pura invenzione, anche l’onorificenza dello Speron d’oro era, in realtà, un riconoscimento di scarso prestigio, ma finché non ne ha consapevolezza, il nostro veneziano non perde occasione per metterlo in risalto. Tutto ciò ci fa capire quanto Giacomo anelasse ad essere considerato un pari.

 

 

 

Sarà, invece, sempre rifiutato dalla classe nobiliare e, anzi, sarà perseguito in varie occasioni da essa. Per comprendere come mai Clemente XIII conferisce il titolo a Giacomo Casanova, che già trentacinquenne all’epoca ne aveva combinate molte delle sue, c’è da dire che Carlo Rezzonico oltre ad essere un figlio di Venezia come il nostro, proveniva da una famiglia di nuova nobiltà. Questo dato potrebbe farci pensare che il Rezzonico, per motivi del tutto personali, fosse sensibile all’aspirazione del veneziano Casanova. Da non trascurare, c’è il fatto che Giacomo era, con ogni probabilità, figlio naturale del nobile Michele Grimani, appartenente a quella famiglia Grimani potentissima nella Serenissima che, all’epoca dei fatti, già annoverava tre Dogi e tre Cardinali. Nel libello Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita, edito nel 1782, è lo stesso Casanova ad affermare la sua origine patrizia “naturale”. Un ultimo “grido rabbioso” di una prolungata, tarda fase di protesta, inversa come ordine temporale di comparsa, rispetto (abbiamo visto) alla scansione in età primaria che ne fa René Spitz. È bene evidenziare come questo suo breve scritto, probabilmente pubblicato come rivalsa contro la nobiltà che non voleva riconoscerlo, scatenò la reazione della famiglia Grimani. I patrizi Grimani, infatti, editarono un altro libello a confutazione del suo. È interessante leggere le memorie di Giacomo perché, attraverso il fluire del suo racconto, comprendiamo anche la weltanschauung veneziana dell’epoca. Venezia è ancora una città potente, ma che sta incamminandosi sempre più verso il viale del tramonto. Uno “Stato” governato da una cerchia di persone influenti che aveva lasciato il commercio, con le sue caratteristiche di dinamicità e attività lavorative, a favore del latifondo e la rendita catastale, contraddistinti dalla passività e dall’assenza di lavoro propriamente inteso. Ricordiamoci di questo quando più avanti, nella mia esposizione, incontreremo l’insulto che più faceva imbestialire il nostro Cavalier dello Speron d’oro, cioè: “poltrone veneziano”.

 

 

 

La repubblica veneziana si stava spegnendo nella sua agonia, indebolitasi da oltre cento anni come potenza mercantile a causa delle compagnie inglesi, fiamminghe, anseatiche e anche di Trieste, Livorno e Ancona. Gli avvenimenti storici la tagliano fuori dai commerci più proficui e la “repubblica marinara veneziana” è aggredita e superata da queste potenze emergenti. Intanto, tutto intorno, lo sviluppo capitalistico e i fervori culturali compaiono con esuberanza in molti territori italiani, dalla Lombardia al Piemonte, dalla Toscana a Parma e al regno di Napoli.  Siamo, dunque, in una “comunità” ancora ad impronta molto agiata, ma che sta perdendo sempre più la sua ricchezza e il suo ruolo predominante nello scacchiere delle più importanti marinerie commerciali. La doppia morale, ad ogni modo, resta quale crinale ambivalente a mediare tra i comportamenti leciti e gli illeciti. Venezia è la città dove la classe sociale più abbiente vive tra balli in maschera e manifestazioni di piacere, ma è anche un luogo dove l’inquisizione è molto presente. Sacro e profano convivono a Venezia e non senza qualche difficoltà.

 

 

 

 Se è vero che i Grimani si danno pensiero per offrire a Casanova alcune garanzie, occupandosi della sua educazione e del suo futuro, è vero pure che non poteva essere reso pubblico lo “scandalo” di questo figlio naturale nato al di fuori del sacramento matrimoniale. Un escluso/incluso, un commensale invitato al desco, ma non annesso perché conosciuto sì, ma non riconosciuto. Tale ambivalenza, tale alternanza sull’altalena del “ti invito alla mia mensa, ma non pretendere di farne parte costituente”, inciderà molto nello sviluppo della personalità di Giacomo. La fase della disperazione e quella del rifiuto spitziane se non riusciamo a leggerle in età primaria per mancanza di informazioni attendibili, spesso le troviamo, posticipate, come sottofondo alle sue azioni e condotte adulte. Quasi fosse un “suo basso” in un settecentesco canone musicale per archi, basso continuo quale base da cui si dipartono le variazioni delle viole e dei violini che s’intrecciano affascinanti e seducenti, così la fase “unificata” della “disperazione/protesta” di Giacomo genera le fondamenta del suo modo politropo d’affrontare la vita. Anelare amore in maniera così bramosa può essere interpretata come una necessità disperata di essere “salvato” e il rifiuto aggressivo e immorale delle regole di una auctoritas svalutata, perché falsa e ipocrita, può essere inteso paradossalmente come urgenza d’affermazione e di riconoscimento; nel caso di Casanova, purtroppo, affermazione e riconoscimento tanto indispensabili quanto inottenibili.

A queste condizioni la vita può procedere al ritmo di un minuetto, elegante, piacevole ed edonistico sì, ma anche molto pericoloso. Infatti, il comportamento di Giacomo, che ad una certa età vira decisamente verso il libertinaggio e la ricerca del piacere fine a se stesso, lo mette nei guai.

 

 

 

Giacomo è imprigionato dall’Inquisizione nel famigerato carcere dei Piombi. Il 26 luglio 1755 viene catturato all’alba. A quei tempi, non c’era alcun obbligo da parte delle istituzioni di comunicare all’arrestato il suo capo d’imputazione. Quindi, Giacomo è incarcerato senza saperne il motivo e senza poter prevedere la durata della sua permanenza nel carcere veneziano. Casanova non è tipo da rassegnarsi a stare in una cella, soffre molto per la deprivazione del piacere che la vita all’esterno può dargli. Circa un anno e quattro mesi dopo, la notte del 31 ottobre 1756, riesce a portarsi dalla cella ai sottotetti del carcere grazie ad un buco nel soffitto effettuato da un prigioniero come lui, un certo frate Marino Balbi, da lì sbuca sul tetto per poi calarsi da un lucernario all’interno del palazzo. Insieme con il Balbi, infilano una serie di stanze fino ad essere notati ed essere segnalati ad uno dei custodi del palazzo, il quale li scambia per visitatori rimasti chiusi inavvertitamente dentro e spalanca loro la porta verso la libertà. I due, immaginiamoli, guadagnano celermente la sponda del canale più vicino e una gondola che li porta, con la sua tipica voga, il più lontano possibile.

 

 

 

Diversamente da ciò che suggeriva qualche anno fa Susanna Tamaro col libro Va dove ti porta il cuore, Giacomo va dove lo porta il fluttuare dell’aere. Ce lo comunica egli stesso nella prefazione alle Memorie (edizione italiana del 1965 a cura di Piero Chiara): «Non avendo mai avuto una meta fissa, il solo sistema al quale io potei ricorrere, se sistema è, fu di lasciarmi andare dove mi spingeva il vento».

Il “randagio veneziano”, dunque, segue con molta più inclinazione il principio del piacere piuttosto che quello di realtà. Nella psicoanalisi freudiana è posto l’accento sull’integrazione che si deve ai due principi. Freud parla esplicitamente di sublimazione delle pulsioni erotiche. Una delle sublimazioni più efficaci nei confronti di tali spinte profonde di origine sessuale è l’arte intesa come creatività. La libido, invece di essere indirizzata soltanto verso la meta sessuale, può essere utilizzata per sospingere il proprio talento artistico/creativo. Secondo la psicoanalisi freudiana, dunque, la maggiore responsabile della manifestazione artistica è la pulsione sessuale sublimata. Orbene, Giacomo non era proprio un artista, quantunque avesse di sicuro un certo talento “artistico” nello scrivere e nel creare e risolvere situazioni a suo favore. La gran parte della sua spinta pulsionale erotico/sessuale non prendeva deviazioni di sorta e si dirigeva decisamente e senza sosta, oserei dire compulsivamente, sugli “oggetti d’amore” di suo interesse: le donne giovani, belle e intelligenti. Sembra non gli importasse il ceto, purché avessero queste tre caratteristiche fondamentali. Strano a dirsi, per uno che cercava spasmodicamente, abbiamo visto, di elevarsi in società. Casanova, però, è un uomo dalle mille sfaccettature psicologiche e, certamente, anche alquanto contraddittorio. Arthur Schnitzler nel suo Il ritorno di Casanova (Schnitzler, A., 1918) riporta la descrizione di una seduzione perpetrata dall’ormai cinquatatreenne Casanova “ai danni” di una giovane, bella e intelligente fanciulla dal nome Marcolina. Nella sua autobiografia Giacomo chiosa, riducendolo, un passo delle Lettere a Lucilio di Lucio Anneo Seneca (107,11,5) che invece, precisamente, recita così: «Ducunt volentem fata, nolentem tahunt», cioè a dire: “Il destino guida chi accondiscende, trascina chi s’oppone”. Per lo stoico Seneca, fata, cioè il destino non è spietato e incomprensibile, poiché per lo stoicismo il destino è Logos, ossia intelletto, una ragione universale che oltrepassa le nostre individuali volontà. Pertanto, quando accenna a tale passo, Giacomo quasi vuole crearsi un alibi circa gli accadimenti della sua vita. Si può lottare con coraggio per la vita, si devono compiere le scelte giuste, nondimeno c’è qualcosa di più potente della volontà. Un disegno più grande della nostra forza di determinazione di cui noi costituiamo una semplice tarsia, un dettaglio, e di cui facciamo parte.

La psicologia teleologica di Carl Gustav Jung s’inserisce alla perfezione in tale vision e offre una ulteriore e più completa chiave di lettura. Il Principium Individuationis, che si pone alla base della teoretica psicologica del grande psichiatra svizzero, ci offre una mano nell’interpretare la vita di ognuno, quindi anche quella di Giacomo Casanova. Le nostre azioni, i nostri comportamenti, le nostre scelte, dettate anche da qualcosa di imponderabile, costituiranno i limiti e le dimensioni del nostro esistere. In seguito ad esse noi diventeremo quella specifica, particolare, unica persona e nessun’altra. Però, il nostro cammino così peculiare e irripetibile è immerso nella trama che vede e porta con sé l’incrociarsi e il fluire di ogni percorso, quale fosse un rivolo che costituisce, insieme con tutti gli altri rivoli, un universo delta infinito.

 

 

 

Si muove tanto Giacomo, e nel suo incessante girovagare giunge anche in Svizzera nella primavera del 1760. Qui riscontriamo la sua esigenza di fermarsi e di provare pace e distacco dalle cose del mondo. Infatti, a seguito della visita fatta all’abbazia benedettina di Einsiedeln, provò il desiderio di raccogliersi e di estraniarsi dal tumulto della vita mondana. Ma la sua struttura caratteriale, improntata al principio del piacere, lo fa presto desistere dalla sua scelta ascetica non appena incontra una bella e misteriosa signora che gli riaccende la recherche e lo fa perentoriamente rimettere “in movimento”. In questo episodio troviamo sussunta tutta l’ambivalenza della personalità del veneziano. In Svizzera, grazie al suo indubbio fascino (egli conosce bene i riti e le convenzioni sociali dell’aristocrazia del suo tempo) incontra il giudice bernese Bernard de Muralt. Tramite il giudice è introdotto presso il dottissimo Albrecht Haller che risiede a Roche fino a giungere a far visita a Voltaire nel castello di Ferney. Dell’incontro Giacomo conserva un ricordo negativo poiché il grande illuminista non lo accoglie bene. Battibeccano e fino alle soglie della terza età Casanova gli porta rancore tranne a trascrivere nella sua Histoire de ma vie un certo pentimento per il giudizio negativo dato al grand’uomo. Ci lascia scritto che lesse molte sue opere e che le trovò straordinarie. Queste note di onestà intellettuale ci convincono che la sua autobiografia sia apprezzabilmente sincera. Per questo, quando si leggono le righe dei suoi ricordi, si è catturati dalla narrazione, perché si ha la netta sensazione di stare ad ascoltare un uomo vissuto in pieno Secolo dei Lumi che apre il cuore mettendo da parte le egodifensività razionali e di convenienza.

 

 

 

Per elaborare un lutto c’è bisogno di un cadavere. Senza l’assenza definitiva di una persona avremo difficoltà a staccarci da essa. Giacomo vede di rado la madre, ma essa c’è e appare e scompare di continuo. La compulsiva ricerca del femminile, nonché la relativa brevità delle sue relazioni, potrebbero anche essere debitrici alla continua assenza/presenza della bella madre. Forse Giacomo in tutta la sua vita non ha fatto altro che cercare la presenza amorosa della madre in tutte le donne con cui ha avuto storie sentimentali. Le seduceva per “condurle a sé” e per abbandonarle, quasi come forma punitiva, per non essere stato amato davvero da Zanetta. Oppure, chiudeva le storie d’amore per semplice incapacità a sostenerle, non avendo avuto un modello d’amore primario costante cui riferirsi. Forse in lui era alta la fobia di essere lasciato da loro proprio come, in fondo, fece la madre. Forse ripeteva semplicemente uno schema appreso sempre dalla madre, che lo seduceva con la sua presenza tranne poi abbandonarlo improvvisamente per seguire i suoi impegni d’attrice bella, brava e desiderabile. Non lo sapremo mai. Sta di fatto che, in molte situazioni della vita dell’avventuriero veneziano, e non solo in quelle amorose, ritroviamo questo schema da “attore” che arriva, fa la sua prestazione professionale interpretando al meglio la sua parte, e se ne va non dando per scontata la sua riapparizione a breve. Allora, l’etimo del verbo sedurre, a questo punto, potrebbe anche essere diverso. Se Giacomo agiva così, come un attore, nelle vicende amorose vuol dire che non voleva condurre a sé le sue donne, ma usava lo stratagemma della recita per condurle in un altrove, nel loro altrove, in quel luogo/recitativo della loro mente dove esse configuravano il grande seduttore proprio come avrebbero voluto che fosse.

A questo punto l’etimo latino del termine non può più derivare da sé ducere, cioè condurre a sé, ma da sed ducere, cioè condurre altrove, dove l’avverbio sed sta ad indicare quell’altrove esistente nell’immaginario della donna da conquistare. Giacomo era un eterosessuale convinto nonostante le sue frequentazioni col famoso Bellino che si spacciava per un cantante castrato. L’astuto veneziano, per l’appunto, col suo fiuto etero, afferra subito e per certo che si tratta di una donna. Si capisce con agio quanto il secondo etimo del verbo sedurre spieghi meglio la facilità con cui Casanova riesce a far breccia nel cuore delle sue amanti. Condurre a sé, alla propria personalità specifica e definita una persona è molto difficile perché essa deve attagliarsi esattamente, cioè trovare interessante la persona e quella particolare psicologia che pretende di farlo. Le probabilità in questo caso si abbattono drasticamente. Non è scontato che un tipo di personalità e/o di psicologia (soprattutto le più complesse) possano confarsi alla perfezione alle esigenze del conquistando. È molto più probabile che la sua immagine combaci alla perfezione con l’immagine interiore, il portato psicologico relativo all’altro che è espressione presente nella mente di chi si desidera affascinare, se il conquistatore riesce a condurre la persona prescelta, appunto, in quel altrove già esistente nella sua mente. Così dice della signora F. nel XV capitolo delle sue Memorie: «Credevo di conoscerla abbastanza bene per ritenere che quello fosse il mezzo migliore per portarla dove volevo io.». Perciò si dice di un seduttore che è un ingannatore, perché, lungi dal mostrarsi per quel che è, il seduttore “recita” una parte e la fiction non sarà mai qualcosa di autentico. Quindi, Giacomo Casanova raramente ha messo in gioco il suo “vero sé” (forse nelle prime scaramucce amorose quando era molto giovane). Ha, invece, fatto agire (come su un palcoscenico, guarda caso) una rappresentazione di sé che avrebbe dovuto addirsi all’immagine mentale che le persone da conquistare avevano di lui. Un “altro” Casanova, costruito a bell’appunto per il fine della seduzione. Era questo modo di fare che funzionava e Giacomo ne era ben consapevole e lo agiva con tutte le persone da ammaliare, fossero esse amanti o potenti signori dai quali trarre benefici e trattamenti di favore. Un comportamento che contribuisce al suo essere “politropo” e, dunque, difficilmente comprensibile. In effetti, nella sua vita non sono poche le volte che il nostro deve allontanarsi perché delude o in previsione di una possibile delusione che potrebbe dare a chi ha affascinato.

I suoi molteplici aspetti psicologici, il fatto di essere un uomo dalle mille “maschere” non gli giova nei rapporti a lungo termine, dove c’è bisogno di una “stabilità” emotiva e ancor prima psicologica per far sì che il rapporto cresca e si mantenga su livelli di comprensione accettabili. In ogni caso, la recita o la finzione, nel lungo termine, nei rapporti umani, non paga. Nessuno può sostenere per troppo tempo un “ruolo” che non è suo, ecco perché il veneziano si dilegua spesso e volentieri, dopo la sua comparsa/recita. Da bravo ed esperto “attore” sa che deve uscire dalla parte, che lui lo voglia o no; ne va soprattutto della salute psichica oltre che di quella fisica. La quotidianità nelle relazioni pone, presto o tardi, davanti al vero , mandando in frantumi l’idealizzazione che l’altro se ne fa. Non esiste qualcuno, nemmeno il migliore degli esseri, che possa competere con l’ideale.

Giacomo non era soltanto un abile conversatore, gran seduttore che andava d’accordo con tutti perché a tutti forniva l’immagine di ciò che avrebbero voluto che lui fosse. Casanova era anche un uomo coraggioso e con un forte senso dell’onore. Il duello alla pistola con il conte polacco Branicki (nobile della corte del re Stanislao II) ce lo dimostra. Nel 1766, in Polonia, Giacomo incontra e sfida l’aristocratico, offeso per essere stato apostrofato da questi: «Poltrone veneziano». La causa fu un litigio, neanche a dirlo, per una donna: Anna Binetti, una ballerina sua concittadina.

 

 

 

Nello scontro entrambi si ferirono, Giacomo alla mano sinistra, seriamente, ma non troppo; il conte in modo assai più grave e quasi fatale. Il conte, però, visto il comportamento corretto del suo avversario che aveva seguito le regole, comandò ai suoi padrini di lasciarlo andare via salvo. Il rocambolesco veneziano lasciò la scomoda Polonia e per capire quanto, da eccellente seduttore qual era, fosse  anche un abile manipolatore, usò questo “incidente” pubblicizzandolo come un atto dovuto per difendere l’onore di Venezia. Lo scopo era quello di ricevere dai governanti veneziani l’ordine del rientro dal suo esilio. Ordine che arrivò puntualmente.

 

 

In un’altra occasione, bastonò  un militare di basso rango che sembra volesse spacciarsi per nobile e pari di Francia, un certo Le Valeur. Quando questi entrò, annunciato come principe, nella casa del signor D. R., la signora Sagredo disse: «Caro principe il signor Casanova afferma che lei non conosce il suo stemma.». Le Valeur gli si avvicina, lo chiama “poltrone veneziano” e, in tutta risposta, gli molla un ceffone che lo stordisce. Per comprendere il risentimento di Giacomo dobbiamo inquadrare lo zeitgeist veneziano del tempo. Evidentemente, per la radicata cultura imprenditoriale della frenetica e attiva repubblica veneziana, che andava scemando, liquefacendosi in una passività sempre più legata alla rendita, il termine poltrone era un aggettivo molto offensivo che potremmo tradurre col termine di fallito, cioè signor nessuno. Ora, immaginiamo per una personalità come quella di Casanova che, invece, agogna ad essere considerato e incluso nella parte “nobile” della società, cosa possa voler dire un insulto del genere. Ci viene quasi da sorridere, no? Ha sfidato la morte col conte Branicki, figuriamoci con questo pusillanime cosa è disposto a fare! Infatti, Giacomo si controlla, va a prendere il bastone e il cappello ed esce dal palazzo. «(…) andai ad aspettarlo sulla spianata. Quando lo vidi, gli corsi incontro e gli diedi una scarica di bastonate tali che una sola sarebbe bastata ad ammazzarlo. (…) per evitare di essere finito, non gli restava altra scelta che sguainare la spada; ma il vigliacco non ci pensò nemmeno, e io lo lasciai steso al suolo, in un lago di sangue.». Sembra che Casanova, una volta ben sviluppato, fosse molto aitante, alto un metro e novanta e pieno d’energie. Il fatto che si controlli dopo l’offesa ricevuta in casa d’altri ci fa capire quanto fosse ben educato e quanto ci tenesse alla considerazione degli ospiti di alto ceto. Non avrebbe mai reagito con tanta foga nella casa di una persona di rango che l’aveva invitato a trascorrere una serata piacevole in compagnia di gente stimata. Questa sua “educazione” me lo rende particolarmente simpatico. Inoltre, come ho argomentato in apertura, l’insulto di “signor nessuno”, proprio a lui che, invece, ci teneva tantissimo ad essere considerato un qualcuno, lo giustifica appieno per aver liberato, repentinamente, tutta l’aggressività dovuta alla rabbia accumulata  nella sua lunga lotta contro il non riconoscimento e l’esclusione. L’onore anzitutto, fosse per difendere una donna o la sua “dignità di rango”. In questo, Giacomo, era certamente un nobile.

 

 

 

        Gli amori del veneziano si susseguono a ripetizione, in situazioni ed ambienti cangianti ed eccitanti, ma seguono quasi tutti uno schema che oserei dire ripetitivo e, tutto sommato, vano; soprattutto con la piena maturità.

L’amore puro, però, è un’altra cosa e richiede una qualità che il nostro, probabilmente, per sua storia personale, non poté acquisire con stabilità e, di conseguenza, non poté nemmeno offrire con costanza. L’amore che sboccia dal cuore, oblativo e disinteressato che si elargisce sempre e comunque, sia che tu sia in salute e potente sia che tu sia cagionevole e povero è un vero e proprio miracolo. Di tutte le donne che Giacomo amò non ce ne fu una che gli stette accanto nella cattiva sorte. Certamente, come abbiamo compreso, molta responsabilità la possiamo addossare al nostro seduttore, ma le amanti che ebbe, colte, intelligenti, belle e più o meno “nobili” svanirono lungo il suo cammino, soprattutto col sopraggiungere delle sue difficoltà economiche e della vecchiaia, come svaniscono i fantasmi alla luce del sole.

 

 

 

In verità, ce ne fu una, certa Francesca Bruschini, una giovane donna molto povera e ignorante che non lo abbandonò mai. Per anni la Bruschini scrisse lettere a Giacomo dopo il secondo esilio impostogli dalla Serenissima. Tale corrispondenza è stata ritrovata a Dux (Duchcov, nell’attuale Repubblica Ceca) dove il nostro rubacuori passò gli ultimi anni della sua vita ospite nel castello del generoso conte di Waldstein, con l’incarico di bibliotecario.

 

 

 

Gli scritti della Bruschini sono modesti e toccanti, espressi con una terminologia molto debitrice al dialetto veneziano, ma con l’aspirazione a rendere più italiano e forbito il contenuto ed è questo a commuoverci di più: l’amate povera e ignorante che si sforza di stare vicino al suo amore “colto”, cercando un modo di comunicare che la rendesse più comprensibile, quanto più affine possibile e, infine, più cara.  Possiamo dire con certezza che la relazione con Francesca fu l’ultimo importante amore di Giacomo, per lo meno quello che gli restò vicino, seppure epistolarmente, fino alla fine. Il veneziano, corrispose con straordinario affetto al sentimento della Bruschini, anche quando per cause di forza maggiore ne fu tanto distante. Al tramonto della sua vita mantenne questo intenso carteggio e non fece mai mancare alla giovane donna il pagamento della pigione della casa sita in Barbaria delle Tole, nella quale, per un periodo, i due avevano convissuto. Inoltre, ogni qual volta Giacomo ne ebbe la possibilità, le inviò lettere di cambio con considerevoli liquidità.

È questa ultima, importantissima, notizia sulla vita del “randagio veneziano” che ci rende più umano e meno mitico Giacomo Casanova: il suo incessante bisogno di essere amato. Il conquistatore a “profusione”, per parafrasare scherzosamente il “Gastone” del grande Ettore Petrolini, alla fine del turbinio delle sue conquiste, delle difficoltà delle seduzioni più impervie e gratificanti, si accorge che l’amore semplice e sincero (anche se quasi analfabeta e, per bisogno, richiedente protezione) ha un valore più alto e valido. Respingo, in chiusura, qualsiasi critica rivolta alla Bruschini che modella il suo amore alle quantità di denaro che Giacomo le invia appena può. Quando si ama, si vuole il bene del proprio partner. Se si è certi del suo amore, e questi è in difficoltà e chiede aiuto, non si lesinano le proprie capacità di fornire supporto, anzi si agisce la propria forza economica e di protezione fisica. Anche quando vivevano insieme in Barbaria de le Tole Giacomo non la fece vivere come una sguattera e le fornì tutto il necessario per vivere decorosamente.

 

 

 

In questo il magnifico veneziano si è sempre distinto, ha sempre elargito beni e fortune alle donne che ha amato perché loro lo amavano, seppure le storie duravano periodo più o meno lunghi, questo è sicuro.

iacomo è un generoso che sfiora la prodigalità poiché non fornisce sostanze economiche e grandi favori solo alle sue amanti. Lo scrive nelle sue memorie. Gli faceva piacere sapere che buona parte delle persone che sedevano alla tavola di un convivio di gente conosciuta gli fosse debitrice del benessere anche materiale. Forse un ulteriore impulso all’ambizione e al riconoscimento sociale, un’ulteriore prova di quanto “l’escluso veneziano” ambisse ad essere considerato, rispettato e, in fondo, amato.

 

 

 

In conclusione, però, non ai soldi né al potere né alla posizione sociale, ma al desiderio di un amore semplice e profondo si volge lo sguardo del “Cavalier dello Speron d’oro”. Ed è forse questa l’unica vera cosa che ha cercato di raggiungere con perseveranza durante tutta la sua esistenza e che, per motivi che abbiamo cercato di comprendere, gli è sempre sfuggita. Guardandolo negli occhi espressivi del famoso ritratto dipinto, sembra, da Francesco Narici o addirittura dal fratello Giovanni Battista (l’attribuzione e tutt’oggi incerta), intuiamo nel suo sguardo, immaginandola, la grande nostalgia per un amore mai raggiunto poiché, a lui soprattutto, irraggiungibile.

 

 

 

 È questo ciò che cerca Giacomo negli ultimi momenti della sua vita (ed è importante, credo, metterlo in evidenza): un amore sincero, oblativo, che reiteri il suo sentimento con forza, prima che la luce lo abbandoni e si chiuda per sempre sulla sua esistenza, come un sipario alla fine di una recita condotta con scialo, all’insegna del piacere frivolo sì, ma anche con coraggio, onore, generosità ed una certa coerenza di convinzioni e sentimenti.

“Ho vissuto come un filosofo e muoio come un cristiano”, sembra siano state le sue ultime parole.

 

 

 

 

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