MARTA. La donna che amava attendere

MARTA.

La donna che amava attendere

 

 

 

        Racconto di Francesco Frigione

 

 

«Oggi, però, ho capito una cosa, che allora ancora ignoravo: una passione non si può esprimere pacatamente, disciplinatamente, morigeratamente, e nessuno può definirne la forma al posto di un altro.»

Magda Szabó, La porta

 

        Adesso è adesso e tanto tempo fa.

 

 

 

Più di trent'anni sono trascorsi da quando per me brillavano cieli di pietramarina e stelle australi. Nella città formicolante, tra due sconfinate estensioni  – il Rio de la Plata e la pampa –, si fronteggiavano amore e paura. Buenos Aires grondava entusiasmo per la democrazia ritrovata ed era ancora imbrattata dal sangue osceno della dittatura. 

 

 

 

 

Di questa storia, oltre me, due sono i protagonisti: lei, la donna in attesa, e lui, il fiume. Maestoso, placido, testimone di segrete speranze e di delitti.

 

 

 

Lei, dalla finestra di una palazzina della Boca, gli parlava nel respiro della brezza. Lui le rispondeva in una lingua di onde e di scie. 

 

 

 

Devo riesumare ricordi feroci e bellissimi per spiegare questo prodigio. E anche se voi mi crederete pazzo, vi narrerò l'accaduto.

 

***

 

 

La conobbi come sarta. Era assai richiesta. Tanto che le signore della comunità italiana, per realizzare nuovi modelli e aggiusti importanti, dai ricchi quartieri settentrionali si avventuravano fin nel misero sud della città.

 

 

 

A neanche cento metri dal Riachuelo, un affluente dell’immenso estuario, nell'abitazione sorgeva il piccolo atelier. Lo riconoscevi per le finestre sempre aperte e la lampada accesa anche di giorno; si affacciava dal settimo piano di una squallida palazzina, monumento alla nostalgia dell’espatriato. Eppure, qualsiasi cliente visitasse la modista le si affidava senza remore. 

 

 

 

Marta era una donna straordinariamente bella e statuaria. Si avvertiva che da anni sorvegliava la sensualità del suo corpo, tanto da mutarla in una corazza. Così, quando,  per la prima volta accompagnai mia madre al taller, subito me ne sentii affascinato e respinto. 

 

 

 

Quella sera incrociai invece gli occhi verdi e allegri di sua figlia, Julia. Ci bastò uno sguardo per sintonizzarci; parlammo in un angolo della cucina, studiandoci un po’, e, prima di salutarci, ci ripromettemmo di uscire insieme. Di lì a qualche tempo le telefonai e lei fu lieta del mio invito.

 

 

 

Per Julia, inquieta e ambiziosa, io rappresentavo l’occasione di conoscere un mondo diverso da quello ristretto in cui era cresciuta.

 

 

 

Per me, lei era una ragazza attraente e piacevole, che mi mostrava aspetti della realtà argentina poco apprezzati dalla borghesia con cui ero in contatto. Julia mi accompagnava in posti ignoti della città, dove m’imbattevo in persone genuine, che alimentavano il mio entusiasmo per la vita.

 

 

 

Iniziammo a vederci più spesso e, una notte, facemmo l’amore sul prato del Parque Lezama. Da allora, presi a frequentare casa sua, felice di immergermi in quell'ambiente così femminile.

 

 

 

Scoprii così il bizzarro comportamento di Marta.

 

 

 

Quando non riceveva le clienti e cuciva con la radio accesa, interrompeva il lavoro, come obbedendo a un richiamo del fiume. Forse in quegli attimi cadeva in estasi o nella mestizia. Io vedevo, comunque, solo una sfinge rapita dalle acque e uncinata dal tempo.

 

 

 

***

 

Decisi di preparare in quella piccola casa gli esami universitari, che avrei sostenuto al mio ritorno in Italia, e madre e figlia mi accettarono con naturalezza.

Mentre studiavo, mi capitava a volte di distrarmi e spiare Marta. Ero allettato da quel suo corpo svettante, flessuoso, castigato però dalla fatica e dal vestito nero. 

 

 

 

Ben presto mi accorsi che mi seduceva tutto di lei: la delicata linea del collo e il profumo di rose; la chioma annodata sulla nuca; i gesti misurati della braccia nude e il frusciare dei fianchi contro il tessuto. Persino lo sfiatare del ferro e il suo battere sordo sull'asse da stiro avevano un ritmo rigoroso e sensuale. A volte, seguivo la sua mano levarsi in aria e tendere un filo: sembrava un maestro d’orchestra che desse l’attacco a musicisti invisibili.

 

 

 

***

 

Julia era una matricola universitaria e quasi sempre le lezioni la impegnavano fino al tardo pomeriggio. Dunque, io e Marta trascorrevamo assieme molte ore, sebbene raramente conversassimo.

 

 

 

Una delle tante mattine in cui Julia era via, mi misi di malavoglia sui libri, nella mia consueta postazione. Mi accorsi ben presto che tra le pieghe della gonna di Marta si apriva uno spacco profondo, dal quale occhieggiavano due gambe snelle e sode. D’un tratto, quella novità fu come un ritaglio di luce accecante. Provai imbarazzo per l’eccitazione che mi montava dentro e che non potevo scacciare.

 

 

 

Lei aveva di fronte a sé un vecchio trumeau sormontato da una specchiera: se ne servì per osservarmi. Anch’io potevo scorgerla riflessa: vidi le labbra sollevarsi sulla chiostra di denti candidi e i grandi occhi neri brillarle. L’espressione si spense in un istante e Marta tornò al lavoro.

 

 

 

Avvampai di desiderio. Avrei commesso qualunque idiozia per por fine alla tensione che mi martellava. Ma, mentre mi assaliva la smania di stringerla, lei cadde in una delle sue solite assenze: abbandonò l’imbastitura sul tavolo, raggiunse la sedia a dondolo davanti alla finestra e si rivolse al fiume.

 

 

 

Il cambio di scena mi sorprese. Avvertii il silenzio della stanza; i lievi rumori della strada e il rombo lontano dei rimorchiatori. E, su tutto, i gabbiani nel vento.

 

 

 

Marta si accomodò e, dondolando, iniziò un muto dialogo col Rio. Sembrava che il mondo avesse cessato di esistere per lei. Solo le acque melmose contavano, quel flusso continuo e pervicace, risucchiato dall'Oceano Atlantico.

 

 

 

Forse lei memorizzava i tragitti dei bastimenti e dei pesci; forse ripercorreva la rotta seguita dei suoi genitori, o forse già intuiva la sorte dei prigionieri vomitati in acqua dagli aerei militari.

 

 

 

Ebbi l’impressione, infatti, che oscuramente vivesse il dramma di un essere amato: un padre, un compagno, un fratello o, addirittura, un figlio.

 

 

 

Tutto mi arrivava come un mistero, d'altronde, un evento sconfinato e molesto quanto quell'orizzonte fluttuante.

Il mormorio del fiume e l’anima della donna adesso viaggiavano in assonanza e la loro complicità mi obbligava all’attesa. Erano una coppia di amanti ermetici e io l’escluso, lo spurgo di quell’unione favolosa.

 

 

 

Mi riassalì la bramosia. Mi frapposi tra il fiume e il suo sguardo. E lei mi offrì in dono un nuovo sorriso – un sorriso strano, però, da bambina -, inconsapevole e gigantesco. Non vedeva me in quel momento, era chiaro, ma l’ombra di un altro perduto.

 

 

 

Fu proprio questo pensiero a farmi accantonare ogni remora: premetti il mio corpo sul suo ...

Lei godette con gli occhi chiusi e riversi su un mondo lontano. 

 

 

 

Quando finimmo cercai di decifrarne l’espressione. Se volevo prove della sua passione, non ne trovai: a parte il rossore del volto e la nudità regale del corpo, nulla pareva mutato.

 

 

 

Attese qualche istante prima di alzarsi; raccolse i brandelli del vestito e si allontanò. 

 

 

 

***

 

      I rapporti sulla sedia a dondolo si ripeterono molte volte nei due mesi seguenti. Marta mi rifiutava il letto, ma si concedeva al cospetto del fiume e in stato di offuscamento. L’idea che io trovassi quel cerimoniale scomodo, assurdo, e anche umiliante, non sembrava per niente sfiorarla.

 

 

        Ciò che pian piano cambiò, invece, è che iniziammo a parlare. Soprattutto a tavola.

Scoprii la sua conversazione sobria e profonda: Marta non abbandonava mai un tema prima di esaurirlo, non smarriva il filo del discorso né si concedeva una frase di troppo.

 

 

 

Eppure diventava subito elusiva quando le domandavo del suo passato e dei sentimenti.

Questo mi feriva molto. E m’irritava. Il sesso tra noi implicava soltanto un’intimità parziale e sulle sue capricciose confidenze incombeva un muro. 

 

 

 

 

Convenimmo tacitamente su un punto, però: mai sollevare la questione di Julia. Io ne temevo l’impatto e Marta la ignorava. 

Considerando l’amore e la dedizione che, del resto, dimostrava per sua figlia, questa condotta costituiva per me un ulteriore rebus e acuiva il mio sentimento di colpa nei confronti della ragazza.

 

***

 

 

 

        Contemporaneamente, anche Julia si distanziò da me. Cominciò a rientrare a casa sempre più tardi e poi, certe notti, a trattenersi fuori, con la scusa che a ospitarla erano compagne di studi. Ovviamente, aveva un altro.

 

 

 

Il disinteresse di Julia mi sollevò, ma esasperò la mia passione per sua madre. 

 

 

E a quel punto la reticenza di Marta trasformò i miei sentimenti in ossessione. 

Il sesso, per quanto protratto e feroce, non mi bastava più: da lei esigevo adesso tenerezza, entusiasmo, persino gelosia - tutti i segni di un trasporto che si ostinava a negarmi.

 

***

  

 

Furono quelli giorni d’inferno. Più mi esacerbavo e più Marta si arroccava nella sua chiusura.

Eppure, incredibilmente, la diga cedette.

  

 

All'ennesima scenata, in cui soffrivo e sbraitavo, invece di astrarsi come al solito, Marta m’intimò dolcemente: 

 «Ascolta quello che ho da dirti, tesoro mio, e non interrompere … 

Che ti piaccia o no, sei solo un bambino possessivo e spaventato.  Ma dentro di te c’è una luce e a me quella luce piace davvero. Sei tu a non vederla ancora, sai? Un giorno però la scoprirai ...

Intanto devi capire che, quando stiamo insieme, io non ti apro soltanto le mie gambe, cielo mio, io ti apro un mondo, e in quel mondo sei tu a non volere entrare, non io a tenerti fuori. 

 

  

 

Tu ti arresti perché vuoi ottenere da me delle rassicurazioni che non posso darti; ma in amore le attese non si avverano mai. Per amare devi accettare tutto quello che viene, così come viene. 

Io ho sofferto, vita mia, in un modo che non puoi neppure immaginare: mi hanno tolto quello a cui più tenevo e ho creduto d’impazzire.

Per fortuna c’era Julia a cui badare: Julia mi ha salvato.

Ci sono cose ben più grandi al mondo delle tue pretese e delle mie. C’è il peso del destino, per esempio. A questo proposito voglio dirti una cosa: io ti perderò, lo so. E resterò ancora una volta sola; più di un tempo. Non mi illudo».

Avrei voluto protestare, ma lei proseguì.

 

 

 

«Tu devi studiare, maturare, scoprire cose nuove. Ora non comprendi l’importanza di tutto questo. E quando ti sarà chiaro io, ormai, non ci sarò più. O, meglio, tu crederai che io non ci sia ...

Devi promettermi, amore, che mi custodirai in un angolo del tuo cuore, al sicuro, assieme alla speranza del ritorno: perché quando all'apparenza mi avrai dimenticata, c’incontreremo ancora e ci uniremo per sempre ... 

Ma ora prendiamo quello che la vita ci dà. È già un miracolo stare insieme». 

Assaporammo il silenzio.

Mi guardava con una strana gioia interiore.

Quel monologo teatrale e sconnesso mi aveva sconcertato; suonava così melodrammatico. Ma allo stesso tempo mi commuoveva. 

Mi chiesi se mi stavo illudendo ancora una volta.

Fu allora che Marta sussurrò:

«Ora vieni qua, vieni con me … e andiamo dove vuoi tu ...».

Fu così che per la prima volta varcai la soglia della sua stanza e che in quel letto, freddo e solitario, ci sciogliemmo d’amore. 

 

 

 

***

 

La mia permanenza a casa di Marta stava infine per concludersi. Avevo studiato poco e male, ma provavo una tale felicità che la prossima partenza in Italia non mi pesava affatto. Ero al settimo cielo e fantasticavo sfrenatamente sul nostro futuro.

 

 

 

Lei mi ascoltava divertita. Cantava e mi proponeva di andare in giro. Era ringiovanita di vent'anni e incredibilmente bella. 

 

 

 

Poi, però, capitava che, appena fuori della Boca, nelle affollatissime avenidas o nel buio di un cinema, all'improvviso mi afferrasse la mano e mi rivolgesse uno sguardo così implorante da spaventarmi.

 

 

 

Una sera che aveva bevuto, in Plaza Dorrego si mise a strillare, accusandomi di farla soffrire orrendamente. Ero imbarazzato dagli sguardi dei passanti e cercai di farle smaltire la sbornia in un angolo più appartato. Lei si rifiutò e urlò ancora a lungo che le avrei strappato il cuore. 

Quando, il giorno dopo, commentai l'accaduto, mi assicurò di non ricordare nulla. Ma poi, a sorpresa, aggiunse:

«Ieri, devo essere stata sincera, allora …».

 

***

 

 

 

        Prima di partire da Ezeiza per Roma, per un paio di giorni sarei dovuto tornare a casa dai miei genitori, nel quartiere Belgrano.

        Marta mi aveva promesso che sarebbe venuta all'aeroporto: si era già accordata con un’amica della dogana per raggiungermi di nascosto nella zona franca. Avevamo persino progettato di rifugiarci in un bagno per fare l’amore prima di salutarci.

 

 

 

        L'ultimo pomeriggio alla  Boca, sotto lo sguardo di Julia, sistemai il bagaglio. Vedendo che la madre aveva lavato e stirato con cura tutti i miei indumenti, tra cui campeggiava anche una nuova camicia, la ragazza mi osservò con disprezzo. Non nascondeva più il desiderio che sparissi alla svelta. 

 

 

 

        Marta si era chiusa in stanza, forse per celare le sue emozioni alla figlia. 

        Ultimata la valigia, l’attendevo; ma era evidente che non si sarebbe mostrata con Julia in casa.

        La ragazza capì e, compiendo uno sforzo, uscì.

Fu l’ultima volta che la vidi nella mia vita.

        Appena la porta si chiuse, Marta ricomparve.

Aveva gli occhi cerchiati di pianto e i singhiozzi prima repressi esplosero assordanti. Non riusciva neppure a parlare. Il petto le si sollevava a le si incavava a scatti. La strinsi e il suo grande corpo si rannicchiò tra le mie braccia.

 

 

 

Mi sentivo impreparato. Tutto accadeva in modo così incontrollabile: Marta era un fiume in piena totalmente affidato al mio blando conforto.

Lentamente, comunque, si acquietò al tocco delle mie carezze e più ancora al ritmo del Rio, che l’attirava a sé.

 

 

 

Adesso, anch'io avvertivo la seduzione del fiume. Mi si materializzavano nell'immaginazione le invisibili sponde orientali e l’appassita eleganza di Montevideo; risalivo la corrente verso la Mesopotamia argentina e le sorgenti del Paraná, e vagavo nell'oceano aperto per mille vie d’acqua.

 

 

 

Fluttuavamo nel sortilegio del Rio, quando la porta d’ingresso sbatté.

Ci voltammo di scatto.

Dall’atrio ci scrutava attonito un uomo di circa cinquant’anni. Lei impallidì. Io mi alzai.

 

 

 

Non era un ladro. Lo osservai senza sapere che fare. Lui spostava gli occhi dall'una all'altro, incredulo.

La cosa che più mi sconcertò era la somiglianza tra quel volto dalla barba spruzzata di bianco ed il mio. Fisicamente, in comune avevamo anche l’altezza, ma lui era più grasso, meno muscoloso, un po’ inflaccidito e segnato dalla stanchezza. Sembrava che avesse cercato la via di casa per anni, senza mai trovarla …

 

 

 

Considerai il tutto una suggestione e pensai che noi tre, lì, immobili come statue di sale, eravamo personaggi da teatro dell’assurdo: l’uomo pietrificato; Marta, inginocchiata a ripetere «è presto … » ; io basito.

Infine l’uomo le si avvicinò e, ignorandomi, l’aiutò a rialzarsi. Quindi, l’accompagnò in camera da letto e si richiuse la porta alle spalle.

 

 

 

In trance, afferrai la valigia e scesi le scale. Percorsi decine di cuadras, sperando che qualcuno mi aggredisse e tranciasse quel dolore di merda.

Invece tornai a casa dei miei indenne e, dopo due giorni, come previsto, rientrai in Italia. 

 

***

 

 

 

Rimasi a lungo in uno stato pietoso e impiegai anni a scrollarmi di dosso il dolore di quella storia; finché, come dio volle, non ripresi a provare piacere alla vita. 

Ciò malgrado, frammenti dell’antica delusione affioravano proprio nei momenti più felici: erano tristezze, paure, ire, sospetti ... 

 

 

 

Di Marta mi ripromisi di non sapere più niente e, dopo che il suo ricordo smise di ferirmi, non potei neppure farlo.

Quando, infatti, incaricai dei vecchi amici di Buenos Aires di scoprire dove abitasse e cosa le fosse accaduto, le ricerche non diedero esito. 

 

 

 

Si definì così per me una nuova assenza di Marta, più discreta e oggettiva. Non un assillo, ma un’incognita, una perplessità sulla sua sorte.

 

***

 

 

 

Anche questa forma della sua mancanza, però, si è dissolta ‘stamane.

Prima di recarmi al lavoro, come al solito, uscito dalla doccia mi sono specchiato. Il vapore sul vetro si è lentamente spannato. Ed è allora che ho visto profilarsi l’uomo con la barba screziata, qualche ruga e l’affanno, che irruppe in casa di Marta più di trenta anni fa! 

 

 

 

Quell'essere logoro, riapprodato alla vita dopo un esilio e un inferno, sono io.

 

Sì, sono io che accosto la porta alle spalle di Marta.

  E lei mi scorre nel destino.