TRUMAN CAPOTE, QUESTA COSA CHIAMATA AMORE

TRUMAN CAPOTE, QUESTA COSA CHIAMATA AMORE

 

 

Gianluca Ferrato nei panni di Truman Capote al teatro Vascello

 

        di Federica Bassetti

 

Teatro Vascello di Roma

di Massimo Sgorbani

con Gianluca Ferrato

scene: Massimo Troncanetti

costumi: Elena Bianchini

impianto e regia: Emanuele Gamba

produzione: Teatro della Toscana

 

Un eccezionale Truman Capote, affabulante e provocatorio sul candido palco del Teatro Vascello di Roma, redivivo e più camaleontico che mai, ha sgomberato definitivamente da ogni dubbio la mente di chi, spettatore o meno, sia ancora incerto se attribuire ad un sentimento importante e vitale come l’Amore, l’assoluta precedenza sugli altri e soprattutto l’assoluta purezza.

 

 

 

 

Gianluca Ferrato in “Truman Capote, questa cosa chiamata amore”

 

Ed è l’attore Gianluca Ferrato a lanciare la sfida al pubblico nelle vesti di questo Capote odierno, tornato per sbattere in faccia al pubblico ancora una volta il dramma dell’omosessuale giudicato dalla storia, come il grande vecchio Wilde punito nel suo dandismo fuori misura dalle giurie perbeniste di fine secolo o il nostro gigante abbattuto Pasolini che collezionò nella sua vita ben 33 processi, dai quali usciva sempre assolto e che alla qualità omosessuale aggiungeva quella di comunista, connubio virtuoso questo che gli costò l’espulsione dal Pci friulano.

Tra battute spinose e sin troppo intelligenti e mosse di satiresca, ma sciolta teatralità, la provocazione appare evidente, sfacciata come era sfacciato e anticonformista il Truman scrittore e sceneggiatore hollywoodiano degli anni Sessanta, morto nell’84: mettere in scena e in parola tutto, anche la Morte, accostarla con occhio cinico alla Bellezza e poi all’Amore, autentica e stridente prova di come il successo “estetico” dello star system sia evaporante e di come un presidente americano ucciso possa scivolare in secondo piano con tutto il potere della sua immagine proprio dietro le ultime pose della ninfa Marilyn che dal potere fu uccisa. Fantasma quello della diva evocato più volte da un Capote affettuoso e commosso che, un istante dopo, torna ad essere l’irriverente paroliere del caso quando, portati sul palco i cadaveri dei due Kennedy, John e Bob, in giganteschi manifesti cinematografici, lo scrittore Truman si piega in ginocchio. E non lo fa certo per loro né per la storia, né per le sorti drammatiche dello spettacolo, che non vuole mai scivolare nei sotterranei canali del tragico e che non vuole neanche esser solo commedia, ma respiro, affanno, entusiasmo ridondante e anti-pathico di questo unico grande personaggio. Lo fa per lei: s’inginocchia davanti alla versione più rara di Norma Jean spenta, non quella assurta a fama mondiale che la ritrae tra le lenzuola arruffate del suo letto, a faccia in giù, con quelle scapole nude e ancor vive, pulsanti la sua aria sexy persino da defunta, ma supina, il viso tumefatto, irriconoscibile, gonfio. E allora Capote piange, si dispera di fronte all’amica che non ha voluto vedere morta e che i due Kennedy non hanno certo aiutata a tenersi in vita: «Loro non sono che due presidenti, mia cara …», dice tra le lacrime il dissacrante scrittore sul finire di questo spettacolo, andato in scena al Vascello fino a domenica 9 aprile con la regia di Emanuele Gamba, scritto per l’attore da Massimo Sgorbani e che prende spunto da un festeggiamento, i 50 anni che ci separano dalla pubblicazione del libro-scandalo firmato Capote: “A sangue freddo”.  Pubblicazione importante, questa, del ’66, quando Truman Capote adottava per la prima volta i moduli narrativi tipici del romanzo di finzione per raccontare fatti crudeli e veri, coniando la “non-fiction novel”, genere del quale si può dire che sia stato  il fondatore.

 

 

Gianluca Ferrato nelle vesti dello scrittore Truman Capote

 

E l’ispirazione gli venne proprio da un trafiletto di cronaca nera per divenire poi, nella narrazione vera e propria la storia di Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, i due giovani sbandati, usciti dal carcere in libertà vigilata che, penetrati armati in una casa alla ricerca di denaro e casseforti, uccisero tutti i membri della famiglia Clutter che la abitavano, lasciando gli Stati Uniti sotto shock.

 

In questo esempio di leggiadria attoriale di non comune livello, assolo spumeggiante e limpido tra sedie vuote sussurranti invisibili presenze e un tavolo nero che diventa album fotografico-letto-trampolino di lancio, questo bravo ed elegante attore nato dalla fucina di Strehler, doppiatore di discreto successo e definito da Gianni De Feo, altro attore di speciale bravura teatrale, intelligente artigiano della parola, va alla ricerca tra bianchi e neri continui di passaggi, cavalcavia e ponti. E allora le infinite nuànces che si aprono a raggio tra i soliti contrari e che come un ventaglio, rivelano il vacillamento dei valori più saldi, conducono e sanno condurre a credere in un’unica sempiterna e capotiana legge: il pettegolezzo, sapienza profonda del lazzo, intuizione analogica del momento,  carica di esprit che anche per la tagliente e altrettanto omosessuale Virginia Woolf poteva della ragnatela del pensiero femminile essere giusto l’inizio, in quel momento storico che vedrà le donne uscire finalmente dalla prigione del concetto, di per sé astratto, del vecchio mondo, maschilista e paternalistico.

Lo stesso mondo che, a distanza di tempo, si può acciaccare anche a colpi di tip tap proprio sul palco ricalcando l’epoca dei Doors e degli scandali al sole quando i limiti sessuali dei civili erano più rigidi degli stivali indossati dai militari e quando lo scrittore controverso, discusso eppur delicato di Colazione da Tiffany, poteva dire: «Tutta la letteratura è pettegolezzo», liquidando la sacralità dell’arte in un soffio, al di là di ogni morale. Perché, come diceva il serpente di Nietzsche dal suo Paradiso, «il  bene e il male sono solo i pregiudizi di Dio sul creato».