KENSINGTON GARDENS - TRILOGIA DEL MODERNO

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KENSINGTON GARDENS

TRILOGIA DEL MODERNO

 

 

 

         di Federica Bassetti

 

KENSINGTON GARDENS

TEATRO SALA 1, ROMA

  • Con: Annalisa Cucchiara, Eleonora De Luca, Riccardo Morgante, Cristina Todaro, Valentina Perrella, Alessandro Giova, Francesco Soleti e Simone Leonardi.
  • Drammaturgia e Regia di Giancarlo Nicoletti

 

Tornato in scena a Roma, al Teatro Sala 1, Kensington Gardens è considerato uno dei lavori di successo della stagione passata,  attualizzato poi dal recente scenario britannico, che esclude l’Europa, auspicando e realizzando la chiusura dei confini per la severa e anaffettiva Inghilterra. Ultimo capitolo della Trilogia del contemporaneo” di Giancarlo Nicoletti, preceduto da #salvobuonfine e da Festa della Repubblica,l’opera è reduce dal Premio Hystrio – Scritture di Scenae porta con sapienza stilistica sul palco un concerto di bravi attori che sembrano essere così vicini, da lasciarci sfiorare e condividere con loro persino l’intimità della casa che abitano in situazione coatta, sebbene la sana distanza con il pubblico sia mantenuta costantemente grazie all’impostazione attoriale classica. Rara prerogativa questa, nel teatro di oggi, che rischia da tempo immemore, ma al presente ancora di più, di trasformare la suggestione in partecipazione.

 

 

 

Siamo esterni noi spettatori e restiamo esterni, affacciati ad una grande finestra che si apre sulla scena pressoché sempre identica, eppure movimentata dalla vitalità e spontaneità dei discorsi che banalizzano e certificano il comune istinto di sopravvivenza dei personaggi. Il nostro occhio è lì, nella casa chiusa al mondo e alla storia; ma il dramma non è nella casa, divenuta carcere per i suoi abitanti sfortunati - alcuni famosi altri soltanto operosi, minacciati di morte da un’Inghilterra ancora una volta isolata Regina dei suoi fatti e dei suoi mari. Il dramma chiaro e lampante è quello dell’anima che, in tutti i personaggi costretti a quell’amaro isolamento, non ha seguito la propria strada, che si è venduta ancor prima di subire quella chiusura voluta dalla Corona, che ha scambiato l’identità della propria vita con la vita dell’altro, soffocando qualsiasi anelito ad essere se stessa, stravolta dall’idea di sapersi sola, in corsa per la maschera migliore da indossare, per la carica e il talento da fingere, per il ruolo, come quello di Madre-Diva, centrale e spettrale, vampiresca figura che affascina e ammalia per l’intero corso d’opera.

 

 

 

Nessuno è se stesso in questa casa, un po’ per metamorfosi Kafkiana, un po’ per illusione tragica, un po’ per la volontà terrifica e audace di mettere a nudo nella caccia al diverso, l’altro predatore - se stesso e l’altra preda, lo specchio che solo potrebbe riflettere il vero e che una volta scovato viene distrutto. Perché è preferibile che sia rotto.

E se Kensington Gardensrisente a buon diritto dei toni teatrali di antica e saggia maniera, se a tratti sembra cala in un racconto alla Checov, come Il gabbiano, per esempio, al quale la rappresentazione è liberamente ispirata e se gli attori, manipolanti un linguaggio fluido, moderno e mai affettato, non rischiano neppure per un attimo di abbandonare la maschera del proprio ruolo per ispirare qualsivoglia immedesimazione reale (errore che il giovane e dissacrante Nietzsche degli esordi tragici non aveva perdonato all’anti-tragico Euripide), la simpatia e l’antipatia per i personaggi è ciò che si raccoglie e si porta a casa alla fine; e ciò è conquista, pathos, insomma, nel senso tradizionale, avvisaglia almeno dell’antico semplice seme tragico, poi geneticamente modificato da un intelletto umano creduto sin troppo potente e reso tirannico.

Goethe difendeva ilFaust e se stesso quando ammetteva di non poter accedere se non in modo complesso e arzigogolato all’oltreumana ricerca dei fantasmi eroici che popolano il percorso a ritroso nell’inconscio mitico e incivile dell’uomo. Già allora una mente romantica e ottocentesca sin troppo potentemente cibata, elaborata ed egoista si prefigurava con estrema fatica, visto l’abbandono delle emozioni satiresche e dei balzi oltre misura dell’anima dionisiaca, l’accesso alle figure potenti e semplici del mito, veicolate nella Grecia arcaica da una trance emotiva che era soprattutto viaggio musicale al centro del mondo.

Come poter accedere al tragico e alla sua semplicità rituale, alla cadenza illusoria delle maschere del Dio barbuto, appunto Dioniso, quando l’uomo avrebbe fin dal sacrificio di Socrate, buttato poesia, sogno e istinto intuitivo nel pozzo buio di Ade, futuro “Diavolo”? Ecco che questo lungo tempo teatrale che ci viene imposto da Nicoletti, ci costringe a sostare, ci inganna intellettualmente forse con il proposito latente di spostare il nostro intelletto, ormai computerizzato, su un intreccio intelligentissimo, ma fin troppo psicologico nel suo sottobosco assolutamente irrazionale, e realizza un passaggio che solo dopo qualche tempo, a riflessione avvenuta, appare a chi ha il compito di recensire, chiaro.

 

 

 

Nicoletti pospone la vera tragedia che già si fiuta nell’aria e la fine sembra arrivare e invece non arriva. Chi vi scrive avrebbe preferito vedere il giovane Tommaso, figlio della Madre-Diva e capro espiatorio di tanta reclusione esistenziale, perire anche solo a metà della storia; forse avrebbe voluti tutti più rivoluzionari e più uccisi, meno meschini, ma martiri anche se infimi, come prevedeva il vecchio Neorealismo di una volta, perché no ... Ma, ahimè, il Neorealismo è troppo lontano e troppo nostrano. Qui nella storia non c’è più l’italiano, e anche l’inglese purosangue è ormai assai raro. L’identità nazionale è un’illusione, anzi un furto, come dimostra il magistrato inglese che abita la casa e vive la sua amante italica lontano tra quelle mura dalla sua famiglia vera, figlio di vecchi italiani, inglese tra gli italiani reclusi e nuovi.

 

E il castigo per il pubblico è forse ancora più amaro, se si sente come me, quasi raggirato. Reiterando la volontà di doppiare il destino del più sofferto tra i personaggi, che avrebbe potuto morire forse anche prima dell’interruzione di scena, Nicoletti ne allunga l’agonia fino alla fine, quando ormai lo davamo per spacciato, morto vivo, sepolto profugo in un corpo straniero. Due volte ucciso, fuori e dentro.