RICORDI

  • Stampa

RICORDI

 

 

 

di Ricardo E. Trebino

 

Sono ancora tranquillo: in questo posto si sta bene e si respira un’aria serena. Un aroma dolce e seducente, che non posso definire, mi circonda e, in sottofondo, i soavi canti corali di un gruppetto di amici danno una sensazione di pace.

L’ambiente mi fa chiudere gli occhi, all’improvviso sento un piccolo brivido nella schiena e ricordo mia mamma, Malaika (“angelo”, in lingua swahili).

 

 

 

 

Lei nacque in un piccolo paese dell’Africa sud orientale ed  ebbe una vita molto difficile in un villaggio senz’acqua, senza elettricità, senza medici nè medicine, senza scuola. Gli abitanti vivevano di qualche coltivazione, dello scarso bestiame e di frutti silvestri; tutto in mezzo alla più crudele povertà. Malaika aveva potuto fare due o tre anni di elementari dalle monache missionarie; sapeva appena appena leggere e scrivere

Mai giocare, soltanto lavorare: raccogliere legna, andare a prendere l’acqua, mantenere il focolare ... i suoi piedi nudi facevano lo stesso lungo e faticoso percorso ogni giorno; di lí, la schiena curva, il corpo magro, le gracili mani ferite. Ma nonostante tutto questo, lei aveva un sogno, un grande e potente sogno. Sognava una vita con meno privazioni, meno sacrifici, e meno violenza.

Mia mamma, come quasi tutti i bambini africani, aveva uno sguardo deluso e triste: i suoi occhi non possedevano il fulgore della gioia, ma l’opacità del bisogno e delle privazioni.

Quei pochi anni di studio avevano risvegliato in lei l’ansia di conoscere un mondo nuovo, diverso, in cui trovare altre possibilità, anche se le tradizioni e la cultura del suo paese, non le permettevano nessun accesso ad una vita migliore.

Fortunatamente lei aveva l’aiuto di sua mamma –mia nonna Amali (“speranza” in Swahili)- che capiva bene la sofferenza di sua figlia, perchè anche lei aveva avuto una storia triste.

 

 

 

Una notte, dopo aver parlato a lungo tra di loro, decisero che Malaika  avrebbe lasciato il villaggio, nientemeno che per andare in Europa - quasi una utopia. Eppure,  non vedevano un’altra via d’uscita dalla loro miserabile vita.

Ovviamente, non avevano il denaro necessario, e cosi dovettero accettare le condizioni che il trafficante di anime -senza scrupoli- impose: Malaika avrebbe lavorato per qualche tempo e cosi avrebbe pagato anche il viaggio. Sebbene il patto fosse rischioso, lei era una ragazza che non aveva paura di lavorare; però, Amali covava timori, nel suo cuore di mamma.

 

 

 

Una settimana dopo, al tramonto, un vecchio camion si arrestò davanti alla capanna. Mia madre, con le lacrime agli occhi, abbracciò Amali ed entrambe piansero in silenzio; poi, Malaika sali sul veicolo che, in breve, usci dal paese per cominciare la prima parte del suo lunghissimo percorso: 4500 chilometri per arrivare alla costa settentrionale del Continente, e poi 160 miglia di mare che separano il litorale africano dall’isola sognata: la porta dell’Europa.

Quella prima notte il camionista si fermò in altri villaggi per caricare altre persone, che i due sorveglianti, armati di mitragliatrici, spingevano sul camion gridando.

A mezzogiorno, il vecchio autocarro si fermò a un posto di controllo militare, dove gli uomini parlottarono concitatamente; il trafficante pagò e, cosi, il viaggio proseguì. Per tutta la giornata mangiarono poco o nulla, e riuscirono soltanto a bere una scarsa riserva d’acqua sotto il sole bruciante.

La gente cominciò ad ammalarsi: i bambini piangevano per la  fame e la sete; i seni asciutti delle madri non potevano più alimentarli; Malaika, seduta in un angolo del vecchio container, chiuso e privo di luce, pensava alla sua mamma lontana.

Trascorsero altri giorni di quella faticosa e interminabile traversata – lei non sapeva quanti, perché si era indebolita talmente da perdere la nozione del tempo - e la mancanza di acqua e di cibo le pesava sempre di più. Un puzzo penetrante e le voci querule che sentì salire intorno a sé la avvertirono che la morte era arrivata in quel veicolo. Malaika provò un’angoscia che le stringeva il cuore,la delusione e l’amarezza del naufrago che non riesce a vedere l’orizzonte.

Il camion si fermò nei pressi di un miserabile villaggio; il camionista ordinò agli sgherri di aprire il container. I raggi del sole al tramonto accecarono la vista dei prigionieri, ma, tuttavia, la brezza della sera ossigenò i loro polmoni privi d’aria.

Gli uomini armati distribuirono un po’ d’acqua e pane duro, e poi scelsero due ragazzi per costringerli a scavare una buca. Gli fecero calare dentro tre salme: una coppia di vecchi abbracciati e un bimbo. La mamma del piccolo non aveva più lacrime, mentre i vecchi erano da soli ... Nessuno dei passeggeri parlò: tutti erano paralizzati e sembravano insensibili alla situazione.

Il lungo viaggio proseguì, portando quel pugno di anime al suo incerto destino.

Malaika e gli altri si addormentarono, meno per il sonno che per la debolezza. Ma, all’improvviso, da un piccolo pertugio nel container, una brezza fresca e un profumo nell’aria mai sentito svegliarono Malaika che si alzó e cercò di guardare dal buco: era la prima volta che mia mamma vedeva il mare. Respirò l'aria nuova quanto meglio poteva e ne godè intensamente.

 

 

 

Più tardi, il camion si arrestò davanti a un capannone e tutti furono fatti scendere; trovarono in ammassate lì numerose persone. Due trafficanti diedero alla gente un po’ cibo e acqua; quindi  tre uomini armati condussero un gruppo di circa centocinquanta persone al porto della città. Mia mamma era tra di loro.

Tutti erano terrorizzati quando furono caricati su una vecchia barca che salpò appena salirono a bordo. La condizioni della traversata furono terribili,  una volta arrivati al largo, gli scafisti lanciato l’SOS, si calarono in un motoscafo, abbandonando la nave alla deriva.

 

 

 

Nel panico, alcuni profughi si buttarono in mare, altri presero a litigare ferocemente, mentre i bambini piangevano per la fame e il mare cominciava a crescere rapidamente. Il caos regnava sulla barca e Malaika pensò che tutto era perso, quando, nel buio, la speranza si riaccese con il rumore e le luci di un elicottero.

Pochi minuti dopo, sopraggiunsero due navi militari. Un manipolo di marinai placò il tumulto e con grande perizia e rapidità saltò sulla barcaccia alla deriva; ne assunsero la guida e l’agganciarono perché fosse rimorchiata fino in porto.

Un volta sbarcati, furono condotti nel Centro di Accoglienza. I funzionari, aiutati da traduttori, spiegarono loro che sarebbero rimasti lì  qualche giorno, fino a quando il loro status di profughi non fosse riconosciuto.

 

 

 

A quelle parole, mia madre pianse a lungo di gioia, perché credeva di aver ormai  raggiunto la fine di tanta sofferenza ... Malaika e una trentina di donne  furono visitate da vari medici; mangiarono bene; ricevettero vestiti per cambiarsi e una stanza per riposare.

 

 

Mentre era in attesa che le si riconoscesse lo status di “rifugiata” e già apprendeva le prime parole della nuova lingua, Malaika subì un duro colpo: il trafficante di anime inviò degli scagnozzi a riscuotere il proprio credito. Una sera, nel campo, sicuramente con la complicità di alcune guardie corrotte, lei e altre tre ragazze furono caricate a forza su un furgoncino e portate in un posto distante e sconosciuto.

L’organizzazione criminale aveva preso le ragazze per costringerle a prostituirsi, e per questo le giovani furono rinchiuse, picchiate, violentate, drogate e lasciate a digiuno per alcuni giorni, finché non si piegarono ai loro aguzzini.

 

 

 

Qualche mese dopo aver venduto il suo corpo ogni giorno, Malaika cominciò a provare delle strane sensazioni. L’interruzione del ciclo mestruale le fece capire, infine, che era incinta. Incinta di me.

Mia madre aveva paura e cercò di dissimulare il più possibile il proprio stato. Pensò di rivolgersi alla polizia, ma essendo una profuga, priva di documenti d’identità, né soldi, sapeva che rischiava di essere rispedita al punto di partenza, e lei non aveva sostenuto tutta quella sofferenza per niente.

Quando il malvagio sfruttatore si rese conto di quello che le era accaduto, la rinchiuse in una casa fuori città. Le dette da mangiare e da bere del tè, finché lei non si addormentò pesantemente.

Dormì per un numero imprecisato di ore e quando si svegliò scoprì di trovarsi sotto un ponte, dolorante e debole. Non capì quello che era accaduto, fino all’istante in cui scorse delle grandi macchie di sangue tra le gambe e sul suo vestito. Allora urlò di dolore e d'angoscia: io, un piccolo essere ancora in divenire, una bollicina di energia, ero stato ucciso ...

Eppure, dal momento della mia morte, i trafficanti lasciarono in pace Malaika, e lei iniziò il suo lento e difficile avvicinamento alla libertà. Ma continuò a pensare a me, a immaginare come sarei stato e se tanto sacrificio alla ricerca di una vita migliore fosse valso la pena.

 

 

Ricardo Trebino vive a Buenos Aires; discende da una famiglia lucana, di cui una parte emigró in Argentina nel 1905.

Il nonno di Ricardo, all’età di dieci anni, viaggiò in America con suo padre ed una sorella, mentre la madre ed i fratelli piú piccoli rimasero a Nova Siri, in provincia di Matera.

Non fu mai piú possibile il ricongiungimento del nucleo familiare e solo dopo molti anni alcuni i discendenti, tra i quali Ricardo, riuscirono a riannodare il filo con i parenti rimasti in Italia

La decisione dell’Autore di approfondire lo studio dell’Italiano, ma soprattutto di scrivere in questa lingua, deriva non solo dai legami famigliari e dall’affetto per la cultura italiana, bensí da un profondo bisogno di ricostruire e riportare alla luce i  brandelli di una storia cancellata. Essa, come tante, è parte della storia trascurata dell’emigrazione italiana, svoltasi in più ondate, quasi sempre in condizioni di estreme necessità, gravando la pressione della  guerra e della disperazione.

Molto si dice e scrive sulla necessitá di fare i conti con un passato di cui restano tracce frammentarie e spesso confuse, in quanto inevitabilmente coinvolte nelle vicende storiche e vitali dei paesi di accoglienza. Per tale recupero di memoria e d’identità la lingua si rivela uno strumento formidabile.

Le attuali vicende di migrazione verso l´Italia e l’Europa sembrano un´occasione imperdibile per un appuntamento tra passato e presente, tra cuore e ragione, tra reale e ideale.