LETTERA DI UNO PSICOLOGO ANALISTA AL GENIO DEL NATALE

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LETTERA DI UNO PSICOLOGO ANALISTA AL GENIO DEL NATALE

 

 

Apollo (mosaico romano del II secolo d. C.)

 

 

        di Francesco Frigione

 

        Venerato Genio del Natale,

la tua storia dura da quando iniziò l’adorazione dell’Uomo per la luce che scaccia le tenebre – quelle che favoriscono gli agguati notturni e quelle che indicano allegoricamente il tormento e l’opacità spirituale.

I nostri progenitori prima ti chiamarono “Sol Indiges” ("Sole nativo" o "Sole invocato") e in seguito ti ribattezzarono “Sol Invictus” (“Sole mai vinto”), quando dagli originari riti agrari italici passarono a quelli influenzati dai culti siriaci ed egizi. Celebravano la tua festa il 25 dicembre, dopo il solstizio d’inverno, giorno in cui l’oscurità più a lungo avvolge e gela la terra. Essi ti rappresentavano come un bambino in grembo a una kore, una fanciulla, una vergine.

 

 

L’Imperatore Costantino (mosaico bizantino)

 

        Il tuo potere fecondo, luminoso e bruciante si associò agli imperatori romani e, attraverso uno di essi, Costantino, si congiunse alla tradizione ebraico-cristiana. In tal modo le antiche premonizioni di Isaia e Malachia, la testimonianza neotestamentaria di Luca e soprattutto le visioni di Giovanni, unitamente al dettato paolino, ti embricarono indissolubilmente al Cristo trionfante sul male spirituale del mondo.

 

 

Adorazione del Bambino (Beato Angelico, 1440-1441)

 

        Il tuo spirito si riverberò nei secoli e, nella società già laica industriale e capitalista dell’800, s’inverò nella penna sublime di Charles Dickens, che ci consegnò col suo Canto di Natale (1848) la figura di Ebenezer Scrooge, un avaro crudele e insensibile, capace, però, di redimersi una volta messo di fronte al triplice spettro della sua anima infantile, della caducità e della solitudine della propria condizione umana e della mortale desolazione generata dalla perversione del possesso.

 

 

Charles Dickens nel 1860 circa

 

        Oggigiorno, Genio del Natale, se vuoi, le cose appaiono ancora più complesse che nell’epoca vittoriana, e io mi trovo – come tanti – a dover decidere cosa sia opportuno desiderare. Nulla sembra essermi precluso, in apparenza, da una società che, salvo sporadiche eccezioni, ha rinunciato alla repressione violenta delle idee e dei comportamenti, ma che, nondimeno, non sembra avviata al bene, se non sporadicamente e quasi per inerzia, per riflesso condizionato.

        Cos’è, poi, questo “bene”? A pensarci, è la possibilità di scelta stessa. Sì, ma allora la domanda diventa: cosa vale la pena che io scelga davvero? Qui, entra dunque in gioco il richiamo del mio daimon, il voto alla mia natura intima e profonda che tu, Genio del Natale, devi assolutamente aiutarmi a rivitalizzare, a rafforzare con decisione, energia, convinzione, ma anche con delicatezza e rispetto per i miei tempi, i miei limiti, i miei talenti specifici; tu devi mettermi in sintonia con la poesia che celo nel cuore e che solo qualche volta so propagare nel mondo.

 

 

Un’immagine di Santa Klaus

 

        Quand’ero bambino attendevo l’arrivo di Babbo Natale con un misto di gioiosa eccitazione e di paura: era una immagine “sacra” quella che percepivo, un’epifania la sua: deteneva un “mana”, un portentoso potere magico, e teneva rinserrata nelle viscere una voce tonante, pronta ad esplodere, tanto che avrebbe potuto infrangere la mia stessa anima. Me lo immaginavo nei pressi di una soglia, come quella della finestra della cucina di casa o del salotto dove brillava l’albero addobbato. Forse, questa posizione liminare indica bene qualcosa di sempre attuale, poiché la mia esistenza si è risolta in un lavoro di spola tra ciò che sta al di qua e ciò che si situa aldilà della soglia: tra il mondo del visibile e quello dell’invisibile, tra l’apparente chiarezza della coscienza e l’elusiva misteriosità dell’inconscio.

 

 

I disillusi (Ferdinand Hodler, 1892)

 

        Sollecitami, quindi, o Genio del Natale, a ché io sia un uomo migliore quando ascolto i miei pazienti, poiché, per mettere le persone nella condizione di esprimere il proprio potenziale, la psicologia tende sovente a snidare le carenze dell’individuo e della sua famiglia. Vi è nella psicoterapia, a volte, un’ossessiva ricerca degli aspetti monchi della personalità e dell’ambiente, una visione dei sintomi come denuncia di incapacità a vivere; pare quasi che il terapeuta nutra un’invidia di base nei confronti della natura umana, “un non poter percepire” ciò che sfugge ai preordinati schemi in cui tende a rinserrare la bellezza e l’orrore della singolarità.

        Aiutami, Genio del Natale, a mantenere, dunque, un florido “doppio binario”; a cogliere, cioè, con sguardo critico le mistificazioni e gli errori, ma anche ad avere cuore puro, sensibile, capace di meraviglia, nei confronti dell’essere umano che mi si rivolge. Fa’ che abbandoni le lenti dell’ovvio e dello scontato. Conducimi, ti prego, alla poesia dell’incontro.