OTTO GIORNI ALLA SETTIMANA / EIGHT DAY A WEEK

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 OTTO GIORNI ALLA SETTIMANA

EIGHT DAYS A WEEK

 

 

I Beatles nel 1963

 

«Eight days a week
I love you
Eight days a week
Is not enough to show I care
»

da Eight days a week, di John Lennon e Paul McCartney

 

        di Francesco Frigione

 

         Mi ha spesso stuzzicato il divertente pensiero che il famoso “Sogno di Liverpool” di Carl Gustav Jung, narrato nell'autobiografia Ricordi, Sogni, Riflessioni [a cura di Aniela Jaffè (1961)], contenesse anche una sottile premonizione della nascita dei Beatles. Il grande psicologo svizzero raccontava, infatti, del suo inoltrarsi con dei connazionali in un panorama urbano simmetrico, sviluppato radialmente, ma tetro e offuscato dalla fuliggine. Con sua immensa sorpresa, al centro di questo paesaggio plumbeo si ergeva una visione di luminosa e “celestiale bellezza”: un’isola, al cui vertice s’innalzava una magnifica magnolia.

 

 

Carl Gustav Jung

 

Nel lavoro sull’inconscio (e sull’alchimia) compiuto da Jung, questo materiale onirico assunse un alto valore simbolico, associandosi alla dimensione del , una realtà che trascende l’Io individuale, in quanto lo genera e lo circonda. La città inglese venne a rappresentare, dunque, l’inizio di una scoperta capitale e rivitalizzante per la personalità, in quell'epoca fortemente tormentata per lo psicologo elvetico: apparve come una “fonte di vita”, un mandala, un emblema della quaternità psichica e della sua quint'essenza, ovvero la relazione.

La relazione è, di fatti, la chiave di volta della vita psichica: se ci si lascia alle spalle le apparenze, l’essere umano trova non più l’astrazione fittizia di un soggetto attivo e di un oggetto passivo, bensì elementi tra loro intimamente correlati, legati da un’attrazione reciproca, da un’influenza che la coscienza aiuta a tradurre in “rapporto” libero e consapevole.

        Ecco come Jung, descrive il proprio sogno:

«Mi pare ancora di vedere gli impermeabili grigiastri, luccicanti, bagnati dalla pioggia. Tutto era assai sgradevole, nero, opaco, proprio come mi sentivo allora. Ma avevo avuto una visione di celestiale bellezza, ed era proprio per ciò che potevo vivere. Liverpool è la sorgente della vita (pool of life). Il fegato (liver) secondo un’antica concezione, è la sede della vita».

        È bizzarro come i quattro insetti kafkiani (il gioco fonetico presente  nel nome del gruppo consiste, infatti, nel far coincidere il suono beetles di “scarafaggi”, appunto, con l’ortografia di beats, “battiti”, quindi suoni ritmati, fortemente scanditi, come quelli del cuore), da oscuri e ignoti ragazzi di una città britannica in pesante crisi post-bellica si siano trasformati in una fiaccola che ha illuminato dionisiacamente il mondo giovanile di tutto il mondo. Il prodigio può essere spiegato solo fino a un certo punto con le sue concomitanti storiche, antropologiche e di costume; vi è senza dubbio, invece, un quid di assolutamente speciale nella loro musica e nel loro modo di amalgamarsi artisticamente e psicologicamente, una forza “numinosa”, che è in grado di giungere fino a noi intatta, malgrado siano passati cinquantaquattro anni dal sorgere di quell’astro e quarantasette dal suo occaso: sette anni solamente da supernova, vissuti con un’intensità incalcolabile - un semplice ciclo di vita che ha generato una scia creativa straordinaria, della quale non si è mai visto pari nella storia umana.

 

 

Lo scopritore e manager dei Beatles Brian Epstein, nel 1965

 

        Pensiamo anche alla maturazione complessiva della band e a quella personale dei suoi componenti. Dall'indifferenziazione iniziale, offerta dall'immagine osmotica voluta dal talent scout e manager Brian Epstein, è emersa nitidamente, nel tempo, la marcata personalità dei singoli. Questo processo, in ultimo, ha portato alla rottura del gruppo, ma gli ha anche consentito, lungo il tragitto, un’evoluzione senza pari, facendo di John, Paul, George e Ringo degli apripista insuperati nel campo dell’arte e del costume.

 

***

 

La locandina del documentario di Ron Howard Eight days a week (2016)

 

        Frugando tra i ricordi personali, ne conservo uno infantile indelebile di quello di cui il bel documentario di Ron Howard (in questi giorni proiettato nelle città italiane) testimonia: e cioè di come i Beatles fossero orgogliosamente spontanei, veraci, onesti, e veicolassero una profonda autenticità in coloro che li ascoltavano e li ammiravano. Essendo figlio unico, avevo nei miei cugini dei fratelli maggiori; in particolare uno, più grande di me di ben nove anni, era assai affettuoso e aperto nei miei confronti.

Un sabato dell’anno 1968, lui e sua sorella organizzarono, a casa, una festa con tanti amici. Per via della mia età, da quest’iniziativa io fui ovviamente escluso. Mi sentii profondamente ferito e deluso dalla decisione, sicché, vedendomi così dispiaciuto, con estrema pazienza, mio cugino passò a consolarmi. La mia rabbia narcisistica non si placò, però, e, anzi, si trasformò immantinente in invidia; ripetei, allora, con livore e pappagallescamente, ciò che dei Beatles avevo tante volte sentito dire dagli adulti. Esibii per intero il mio disprezzo verso “quella musicaccia”. Notai d'un tratto oscurarsi il volto di mio cugino, che mi sottolineò di come parlassi di una realtà a me totalmente sconosciuta e che, per questa ragione, non riuscivo minimamente ad apprezzare.

Avvertii, allora, una profonda vergogna. Una vergogna utile, necessaria, fondativa. Infatti questo episodio mi schiuse, per la prima volta nella vita, una visione critica del mondo adulto, al quale fino a quel momento avevo dato ciecamente credito, senza mai interrogarmi se ciò che chi gli apparteneva asserisse fosse giusto o sbagliato "in relazione" a me (Ipse dixit …).

 

 

La più celebre copertina nella storia del Rock & Roll: quella dell’album Sergeant Pepper Lonely Hearts Club Band, ideata da Peter Blake

 

        Vennero, poi, altre fasi di questa lenta rivelazione. Nella pubertà e nell'adolescenza, la musica dei Beatles rappresentò per me il rifugio dall'insidia della falsificazione che gravava  sulla mia personalità: quella musica mi permise di rammentare che, da qualche parte, esisteva ancora una mia natura profonda e inalienabile, la quale m’imponeva di resistere a un ambiente gretto e conformistico, pronto a conculcarla.

        Col tempo, da adulto, scoprii, persino, che qualcosa di analogo era accaduto a molte altre persone: la musica dei Beatles gli aveva giovato, accendendoli nei precordi.

        Non deve essere un caso, rifletto oggi, che Donald Winnicott, lo psicoanalista che teorizzò l'affermazione del “Vero Sé” e i pericoli del “Falso Sé”, dilettandosi al pianoforte tra una seduta e l'altra con i pazienti, dopo una sonata di Bach o un’aria di Mozart, eseguisse spesso canzoni del quartetto di Liverpool.

 

 

Lo psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott

 

        In definitiva, devo concludere che la carica rivoluzionaria dei Beatles non appartiene soltanto a un passato senza ritorno, ma è piuttosto una partita in grado di riaprirsi ogni qualvolta venga minacciata la nostra libertà interiore, la dimensione di autenticità e speranza, il desiderio di vivere in e per un mondo migliore.

È in quei frangenti che le loro voci e i loro volti tornano a scintillare per noi, integralmente sottratti all'ingiuria del tempo.

       E dunque, similmente agli argentini quando celebrano il genio del tango Carlito Gardel, anche noi, senza esitazione, possiamo giurare che i Beatles “ogni giorno cantano meglio!”.