CARNE ED OSSA DELLA SCRITTURA

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CARNE ED OSSA DELLA SCRITTURA

Note sulla 42esima Fiera Internazionale del Libro

di Buenos Aires, aprile - maggio 2016

 

 

 

         di Luciana Zollo

         La carne e le ossa della scrittura sono quelle dello scrittore. E´una ovvietá, ma é giusto ricordarlo, in tempi di fiere e di festival librari e letterari. Infatti,  quando si tratta della persona viva dell´autore, si diventa facili prede, e soggetti attivi inconsapevoli, dei quella inesorabile disumanizzazione che é ingrediente necessario e risultato ultimo del consumo letterario. Un consumo spietato e vorace che facilmente diventa sbriciolamento, vivisezione e, grazie alle circostanze sapientemente create dai mediatori del caso, sfocia in vere e proprie forme di antropofagia, non sempre solo simbolica. 

 

I lettori  esaminano, criticano, giudicano lo scrittore e spesso lo condannano a morte in quanto delusi dalla sua persona, non ritenuta all’altezza delle aspettative create dai suoi scritti, o semplicemente in quanto eccessivamente umana (vanitosa o scontrosa che sia). Eppure guai a consigliare di leggerli e basta, gli scrittori. Il pubblico vuole vederli, ascoltarli, dialogare con loro, se possibile spiarli, scovare le loro miserie e difetti, per poter  finalmente concludere che si tratta di esseri umani come noi. Lo scrittore non é un dio. Ma non lo sapevamo giá?  

 

 

Gabriele D'Annunzio (foto di  Mario Nunes Vais)

E´un nostro simile. Un padre, un figlio, un fratello. E allora, che ce ne facciamo? Meglio eliminarlo, e se possibile tornare a sognare l’Olimpo, la sede degli artisti irraggiungibile ai mortali. Certo, da tempo gli scrittori piú abili e spregiudicati (basti pensare al vate D´Annunzio) hanno imparato a stare al gioco della cultura di massa, e anche se perdenti  ne sanno ricavare dei buoni premi consolazione . Ma la regola comune é che tutti, scrittori e pubblico, lettori e autori, si difendono, ci difendiamo, dalle minacce della nostra umanitá. La minaccia piú temuta: sentire, soffrire davvero. Quella da scongiurare a qualsiasi prezzo: dover capire.

 

 

John Maxwell Coetzee con dei suoi ammiratori

 

Sono profondamente grata al glaciale J. M. Coetzee, uno degli scrittori vivi che piú mi emoziona leggere, di rendere  impenetrabile la sua sfera personale e privata, facendola supporre come banale. La sua umanitá sensibile e profonda trapela in ogni sua pagina ed i suoi gesti misurati sono espressioni di un fortissimo sentire. Ma tutto resta nascosto dietro al suo volto ermetico ed ai suoi vestiti scurissimi, sempre uguali. Apprezzo molto anche gli artisti che al cospetto del pubblico si dimostrano a disagio, trascinati lí quasi per forza, scontenti di tutto. Ecco, la scontentezza in certe situazioni puó essere un bel messaggio, quasi un regalo. Sebbene la buona educazione induca a ringraziare e la vanitá a sentirsi importanti, é un vero un sacrificio sottoporsi all´indiscriminata osservazione altrui. E´antinaturale.

 

 

 

Paolo Giordano

 

Paolo Giordano é stato invitato alla Fiera del Libro di Buenos Aires, un evento saliente nel nostro emisfero, in occasione della traduzione in spagnolo del suo terzo romanzo, “Il nero e l’argento” (2015). Di nuovo, al centro della sua scrittura, la malattia ed il suo agire subdolo nell´ambito degli affetti, della famiglia osservata, al solito, come terreno di contagio e palestra di sofferenze diffuse e difficilmente, al di lá delle diagnosi dei medici, qualificabili. Una giovane coppia con figlioletto, un piccolo mondo moderno fragile ed insicuro è squassato dal male che colpisce il sostegno di tutto: della vita quotidiana e del sostrato profondo che dà senso allo stare insieme, incarnato da una signora di mezz’età dotata di buon senso e di spirito pratico. Nel suo secondo romanzo, “Il corpo umano” (2012), Giordano aveva affrontato l’argomento del dolore per eccellenza, la guerra, scegliendo il punto di osservazione del corpo, dei corpi dei soldati, della loro fragile composizione física e della loro potente resistenza a colpi ed esperienze a cui  nessuna persona sensata penserebbe di poter sopravvivere. Eppure. Il corpo é questo: siamo noi in un certo senso estranei a noi stessi. E´uno strumento prodigioso che usiamo a nostro piacimento e disprezziamo non appena ci disturba, o si dimostra inadeguato. Parlare del corpo umano, del corpo dei soldati, della guerra come inmensa malattia del corpo dell’umanitá, come  un assurdo (un “gorgo”, direbbe Pavese) universalmente accettato, significa affrontare il tema dell´ingratitudine. Lo scrittore rifiuta il ruolo di scuotere le coscienze, non se ne sente capace. Eppure. I suoi romanzi sono difficili da commentare come si suol fare con la letteratura di consumo, ovvero superficialmente, brevemente per poi passare ad altro. Lasciano tracce pesanti nel lettore attento. Rimandano inesorabilmente al corpo, a quello di ciascuno di noi ed a quello dello scrittore, paziente, perseverante, ossessivo. In tali condizioni, siamo tutti un po´malati, e ci é difficile provare gratitudine per questa consapevolezza.

In spagnolo “poner el cuerpo” é un´espressione molto usata nel parlato, per definire il mettersi in gioco, l’esporsi materialmente, fisicamente, in prima persona, alle esperienze della vita. Esperienze dalle quali  inevitabilmente si esce segnati da ferite, cicatrici, tracce del passaggio dell’esistere sulla materia di cui siamo fatti. Il nostro corpo, appunto , è un involucro scomodo che spesso non vorremmo sentire né avere e che porta in sé la memoria di tutto. I romanzi di Giordano ci rammentano che questo corpo esiste, è importante, sofferente e palpitante. Ecco che allora preferiamo concentrarci freneticamente sul corpo vivo dello scrittore, quali Menadi pronte al sacrificio rituale  dei riflettori, degli autografi, delle interviste. Forse basterebbe semplicemente ringraziare lo scrittore di aver “messo il suo corpo”, di aver dato carne ed ossa alla scrittura, a nome di tutti noi, ad un prezzo impossibile da stabilire.