FELICITÀ

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FELICITÀ

 

 

Dioniso bambino, Museo de Málaga (Spagna)

 

di Ivan Battista

 

In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l'inutile è difficile.

(Epicuro, Lettera sulla felicità)

 

La felicità è l’emozione di chi sente soddisfatti tutti i propri bisogni/desideri. Tale emozione cambia in accordo con la visione del mondo e con l’adesione a determinati valori sposati dall'individuo. Quindi, in un mondo a valore assolutamente capitalistico la felicità dovrebbe essere direttamente  proporzionale all'aumento del denaro disponibile. Invece no. Si chiama paradosso di Easterlin (dal professore d’economia sud californiano Richard Easterlin che negli anni 70 svolse delle ricerche in  campo economico-sociale a tal proposito) e analizza il rapporto tra felicità (in esso chiamata soddisfazione) e ricchezza. Oltre un certo limite, il rapporto diventa inversamente proporzionale, quindi paradossale: a maggiore ricchezza corrisponde minore felicità.

 

 

 

Aristotele,copia romana di un originale greco di Lisippo (330 a.C. ca.), Palazzo Altemps, Roma

 

Allora, è vero: molti soldi non danno la felicità. A mio avviso, per chi vuole essere felice il denaro deve essere inteso come un mezzo e non come un fine. Concetto non originale che fu enunciato, molti secoli prima, da Aristotele:

«E’ chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa infatti ha valore solo in quanto ‘utile’, cioè in funzione di qualcos'altro» (Aristotele, Etica Nicomachea).

 Aristotele, filosofo della eudaimonia, come tanti altri precursore del metodo scientifico, si distingue tra tutti  per la volontà di dare una definizione “oggettiva” dello stato di felicità. In effetti, almeno in teoria, se non si stabilisce a priori cosa sia la felicità sarà molto difficile poi parlare del modo in cui la si può raggiungere.

La mia esperienza pratica, però, mi ha insegnato che la felicità non la si può definire “oggettivamente”, poiché è posta su una strada da percorrere individualmente ed è un compito del tutto relativo a ciò che siamo, modello ontologico che, comunque, dal particolare può giungere a dare qualche indicazione universale. Per esempio, è nella storia di molte coppie felici, specie all’inizio della loro “avventura”, d’andare a vivere in un appartamentino in affitto con camera e angolo cottura, magari un piccolo attico con un largo terrazzo affacciato su di un parco.

 

 

Henri Rousseau, La zingara addormentata (1897),

New York, Museum of Modern Art

 

All’esordio, i soldi sono quasi sempre pochi, ma l’amore abbiamo capito che è inversamente proporzionale alla ricchezza e il terrazzo è, guarda caso, costantemente pieno di piante fiorite (i petali sono delle foglie impazzite d’amore) curate con dedizione. In questi casi, si riscontra anche, con una certa costanza, che quelle logge all’aperto sono frequentate da volatili d’ogni specie, attirati dalle briciole di pane lasciate con intenzione sul cornicione. Altrettanto bene, questo tipo di coppia coltiva le relazioni amicali e quelle, più impegnative, con i parenti. Nonostante siano giovani, dette coppie sono spesso profonde e da anziane arrivano ad essere ancor più profonde.  Raggiungono con fatica e impegno obbiettivi importanti per la soddisfazione di vita; sovente giungono ad avere lavori stabili e garantiti ma che, volutamente, non sequestrino il resto delle loro vite. Con professionalità al top, riescono poi a transitare in una casa più grande di proprietà, magari sempre con affaccio su un parco, per di più arredata con uno stile ricercato e carico di senso non per alterigia, ma in accordo con l’eleganza e la sensibilità del loro accresciuto pensiero. Lungo questo percorso, tali genere di coppie hanno sgobbato tanto e corso molti rischi, soprattutto per la qualità della loro relazione. Se si rincorrono idoli quali il denaro, il successo, la fama, la gloria, il lavoro da anteporre a tutto, si rischia di perdere di vista le cose veramente importanti nella vita quali l’amore e la considerazione delle persone che stimiamo e alle quali teniamo molto. A queste condizioni, è facile perdere il contatto con la felicità, da qualsivoglia presupposto si parta e qualsiasi siano le mete che si vogliano raggiungere. Se riesce a trascorrere molto tempo insieme, la coppia è definita a lungo termine.

Inevitabilmente, come ogni “vecchia” coppia, avrà avuto dei momenti difficili, dove sarà uscita fuori anche la loro Ombra, la parte meno nobile di loro. Ci saranno state crisi importanti, ma sempre superate e non per la paura di restare soli, ma per la grande sensibilità e intelligenza di entrambi. Ogni volta sarà stato determinante per i partners accorgersi che l’assenza e la nostalgia dell’altro non sarebbero state sanabili, non perché si è innamorati dell’idea di lui o di lei, ma perché si ama proprio quella persona reale e nessun altra è in grado di sostituirla o farcela dimenticare (nonostante la materializzazione di amanti vari e più o meno “validi”, nei momenti di vuoto dovuti alla crisi).

Alla fine del loro percorso, alla coppia a lungo termine si domanda immancabilmente come abbiano fatto a restare insieme così tanto tempo, 50, 60 o più anni; spesso alludendo con malizia alla loro ipocrisia istituzionale. La risposta più intelligente e meno consumista che abbia mai sentito in questo caso è perché loro appartengono ad una dimensione dell’essere che non getta via le cose che si rompono, ma che le ripara, con l’intenzione di farle diventare più robuste e funzionanti di prima.

Purtroppo, oggi, tra le giovani generazioni, soprattutto quella dei quarantenni, è in voga il consumismo dei sentimenti e, quando una relazione entra in crisi, si è più propensi a chiudere il rapporto come fosse un vaso vecchio con una pianta secca. Si va, quindi, al supermercato floreale per sostituirlo con un altro vaso con un’altra pianta di un altro colore, senza minimamente chiedersi perché quella pianta si è rinsecchita e che cosa non si è fatto personalmente affinché non avesse avuto ad essiccarsi. La cosa più ardua, anche in questi casi della vita, è scorgere, riconoscere e ammettere le proprie responsabilità negli errori commessi, tenendo presente che nei confronti dei nostri impegni siamo sempre molto clementi e ben disposti, mentre non lo siamo affatto per quelli degli altri.

 

 

Francis Scott Fitzgerald nel 1921

 

Francis Scott Fitzgerald ne Il grande Gatsby (Fitzgerald, F.S., 1925) ci offre, in maniera letteraria e un po’ autobiografica, l’errore più clamoroso che si può commettere quando si cerca la felicità, per lo meno nell’amore di coppia. Jay Gatsby è innamorato di ciò che lui crede sia Daisy e non di ciò che lei è in realtà: una donna strampalata, facilmente esaltabile e indifferente che sfracellava persone e cose con assoluta noncuranza e che poi lasciava fossero altri a rimediare ai pasticci che aveva combinato. Confondere il proprio portato psicologico che si ha dell’altro proiettato su di lui/lei con ciò che lui/lei è in realtà è l’ostacolo più impervio da superare per una coppia votata alla realizzazione della felicità.

Torniamo un passo indietro ad un tentativo più didascalico di definizione della felicità.

Abbiamo capito e sappiamo tutti per esperienza personale che le dimensioni della felicità sono molteplici. Tra esse, possiamo sicuramente annoverare quella:

a)   Biologica;

b)   Filosofica;

c)   Psicologica;

d)   Spirituale.

 

Ognuna di esse avrebbe bisogno di uno spazio comunicativo importante per essere affrontata, non dico esaustivamente, ma in modo sufficientemente apprezzabile. Io proverò a farlo in queste poche righe.

Biologicamente la felicità coincide con la piena salute e la soddisfazione delle proprie necessità primarie in senso fisico. Gli istinti e le pulsioni profonde devono essere appagati, in maniera legale e “corretta”, per sentirsi “felici”. Così, all’interno della coppia, ad esempio, è fondamentale che ci sia un buon andamento relativo alla sessualità. E’ altrettanto importante che la salute fisica sia a posto e che si abbia la possibilità di sfamarsi, ripararsi dalle intemperie, insomma in poche parole preservare il fisico, parte integrante della totalità dell’individuo. Il cervello felice secerne alcuni ormoni cosiddetti proprio “della felicità”, tra cui la serotonina, la dopamina e l’ossitocina.  Quindi, misurando la quantità di ormoni e neurotrasmettitori di questo genere si può calcolare la quantità di felicità in un dato cervello. Oggi la neuroscienza può farlo. Si chiama T.e.p., Tomografia ad emissione di positroni e fotografa il flusso dei neurotrasmettitori, compresi quelli della felicità se si vuole quantificarli. Questa tecnologia, però, riesce a misurare, ma non a comprendere il perché si è felici. Sarebbe oltremodo difficile collegare il flusso dei neurotrasmettitori esattamente agli stati d’animo senza rischiare di prendere un abbaglio. Per esempio, in una T.e.p. dove risulti una presenza enorme di catecolamine si potrebbe pensare che il soggetto sia in un pericoloso momento di esaltazione maniacale, mentre, invece, è semplicemente innamorato. Quindi, con la biologia e in particolare con la neurobiologia e la neurofisiologia, possiamo tutt’al più evidenziare se il soggetto è in uno stato felice o depresso, ma non possiamo comprenderne le cause.

Le cause le si possono capire meglio con un approccio filosofico e ancor più psicologico o spirituale. Per questo motivo, se la causa dell’infelicità (depressione?) non è di origine squisitamente organica, non ha potere risolutivo anche la messa a punto, da parte della ricerca scientifica farmacologica, di farmaci selettivi come gli SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitors). Questi farmaci, sono sostanze che riescono a bloccare la ricaptazione della serotonina da parte dei recettori pre-sinaptici neuronali e interrompere la sua eliminazione nell’intestino (dove è massimamente prodotta). Gli SSRI favoriscono, così agendo, l’accumulo di tale importante ormone nel tempo, fino al raggiungimento di valori terapeutici. Da considerarsi degli ottimi alleati nella “cura dell’infelicità”, essi non vanno promossi, però, a risolutori tout court di tale sofferenza, in modo particolare quando questa è certamente ad insorgenza psicologico/spirituale.

 

 

Epicuro, busto marmoreo, copia romana dell'originale greco

(III secolo-II secolo a.C.), Londra, British Museum

 

Nella Lettera sulla felicità indirizzata a Meneceo, personaggio con ogni probabilità immaginato dall’autore come nello stile dei saggi di tipo epistolare (vedere anche Seneca, Lettere a Lucilio), Epicuro ci fa sapere che non esiste un’età specifica cui è attribuibile lo stato particolare della felicità. Né la gioventù né la vecchiaia sono specificatamente deputate a doversi occupare della salute dell’anima, perché «A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'anima».

La filosofia ama il pensiero e il pensiero porta alla conoscenza delle cose della vita che è lo stato principale della felicità. L’essere umano intelligente, per quanto gli è possibile, elimina la sofferenza fisica (aponia) e la sofferenza psichica (atarassia); sono questi due dolori i principali imputati dell’assenza di felicità. Più li si può controllare o addirittura eliminare, più la felicità aumenta poiché aumenta il “piacere” e diminuisce la sofferenza. La teoresi del filosofo greco, ingiustamente confuso dai più ignoranti in materia con un pensiero di materialità crapulona, suddivide i piaceri in tre categorie principali:

 

1)   I naturali e necessari;

2)   I naturali, ma non necessari;

3)   I non naturali e non necessari.

 

Tra quelli naturali e necessari mette al primo posto l’amicizia, poi la libertà, la protezione, il cibo, l’amore, il vestirsi, le cure alla persona. Tra i naturali, ma non necessari annovera l’abbondanza, il lusso, le grandi dimore principesche, la cucina ricercata e generosa al di là del necessario. Tra i non naturali e i non necessari abbiamo: il successo, il potere, la gloria, la fama etc.

In questa graduatoria epicurea (dove i più attenti possono rintracciare con facilità sia le enunciazioni di  Abraham Maslow, sia le ricerche del succitato

Richard Easterlin) comprendiamo che i piaceri naturali e necessari sono importanti per la realizzazione della felicità, quindi avere l’amore e l’amicizia vale più che avere successo e gloria. I piaceri naturali, ma non necessari possono essere una cosa buona se per raggiungerli non dobbiamo sacrificarci esageratamente. Chi per guadagnare un po’ più denaro aumenta le ore di lavoro e diminuisce quelle dovute all’amore e alle relazioni sociali positive, perde lo stato di felicità ottimale. I piaceri non naturali e non necessari sono generalmente forieri di dolori e di grandi sofferenze, quindi d’infelicità. Seguendo la filosofia di Epicuro, dovremmo concentrarci sugli aspetti naturali della vita e coltivare con impegno l’amicizia, dimensione dell’amore del tutto positiva e irrinunciabile nella nostra esistenza. Per godere della nostra realtà, dobbiamo eliminare gli affanni e procurarci senza troppo sforzo le cose di cui si ha bisogno, desiderando sempre meno le cose futili, in una sorta di graduatoria del non necessario e superfluo. Costruire soprattutto relazioni interpersonali valide e continue, questo è l’importante lavoro che porta alla felicità.  Ancor più con la psicologia si riescono a comprendere gli stati della felicità.

 

 

 

In Psicologia, il raggiungimento della felicità è strettamente legato alla realizzazione delle proprie necessità/desideri. Nella piramide dei bisogni di Abraham Maslow (Malsow, A., 1954) si parte dai più fisiologici per arrivare a quelli assolutamente meno necessari, ma appaganti secondo la scala di valori che l’individuo e la sua cultura conferiscono loro. Così, se è importante riuscire ad avere una casa dove realizzare protezione e rifugio, sarà ancora più importante, man mano che si sale sulla scala della realizzazione dei desideri, possederne una che esprima con l’arredamento il proprio stile come rappresentazione della propria personalità, se non il proprio status sociale.

E’ importante capire quanto la percezione di felicità sia legata ai desideri dell’individuo e, quindi, alla sua visione del mondo. Se per uno è importante l’impressione che il prossimo ha di lui, sarà determinante adeguarsi alla weltanschauung che il suo prossimo ha. Se per un altro non è importante il giudizio del prossimo, vedremo che il suo comportamento sarà meno conformista, sicuramente più eccentrico, ma più vicino alla propria intimità di vissuto. Mai come in psicologia la ricerca della felicità è intesa come un percorso individuale e soggettivo. Ciò che va bene per l’uno non va bene per l’altro, anche all’interno della stessa cultura di riferimento.

 

 

Carl Gustav Jung

 

In campo spirituale la felicità sembra sia un tema tanto antico quanto l’essere umano. In una famosa intervista della BBC con John Freeman, fu chiesto a Jung se credesse in Dio. La sua risposta fu: «Adesso lo so. Non ho bisogno di credere». Ovviamente, da scienziato dell’animo umano intendeva dire che credere in Dio è una necessità alla quale l’Uomo non può sottrarsi. In sostanza, è l’Uomo che ha sempre creato la divinità e non il contrario. Quindi, se Dio esiste, egli dimora unicamente nella psiche dell’essere umano. Gli individui posseggono nella loro mente l’esigenza di condurla al trascendente che porti ad acquietare la sete di comprensione, di verità e d’infinito, propria della loro specie. È qui che si colloca la necessità della ricerca spirituale della felicità. Il pensiero religioso tende a fare un distinguo tra piacere (felicità procurata dalle cose materiali) e felicità spirituale (procurata da dimensioni dell’animo, quali la semplicità e la serenità).

 

 

Tonaca di San Francesco (1215 ca.), Assisi, Museo della Basilica inferiore

 

L’esempio cattolico più noto è San Francesco d’Assisi che abbandonò la ricchezza colma di cose materiali che potevano conferire sì piacere di stare al mondo, ma non la completa felicità interiore data, nella sua convinzione, solo dalla possibilità della visione di Dio.

 

 

Domenico Peterlin, Dante in esilio (1860-1865),

Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)

 

Anche Dante Alighieri, nella Divina Commedia, non fa altro che descrivere un percorso spirituale che parte dall’imo più oscuro e spaventoso e giunge alla “luce” della contemplazione di Dio. Nel Nuovo Testamento ( Matteo, 5,1 – 12), Gesù, accomodatosi con i suoi fedeli su una montagna a nord del mar di Galilea nei pressi di Cafarnao, enuncia i principi che possono portare alla beatitudine secondo la visione cristiana; così li ammannisce:

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi».

 

 

Cristo pantocratore, Duomo di Cefalù (1132 ca.)

 

Per quel poco che ne so, in modo sostanzialmente diverso da Epicuro, ma comunque spirituale, filosofico e psicologico anch’esso, Buddha sosteneva che la causa della sofferenza esistenziale fosse l’inconscio desiderio del piacere. La soluzione che porta alla felicità è la rinuncia consapevole al piacere e la sua conseguente eliminazione.

 

 

Gauthama Siddharta Buddha, Tempio di Ananda (Birmania) (1091 c.a)

 

Per raggiungere ciò, i buddhisti tibetani, ad esempio, predicano la coscienza pura data dalla mente cosciente quando raggiunge lo stato di chiarezza privo d’intralci e di proiezioni. È questa la radice della felicità e della liberazione, che produce la condizione “psicofisica” di eccelsa beatitudine ed è questo lo stadio della coscienza più elevato, noto nel buddismo tibetano come “mente della luce chiara”. Un po’ quello che predicavano i filosofi greci della già citata eudaimonia. In effetti, non avere desideri da soddisfare equivale a sottrarsi al piacere. Diogene di Sinope, un filosofo “cinico” del quinto secolo avanti Cristo, rinunciando a tutte le cose che egli riteneva superflue, si era adattato a vivere in una botte e si copriva col solo mantello socratico. Una volta che osservò un bimbo bere alla fonte con l’incavo della mano gettò anche la sua ciotola di legno.

 

 

Gaetano Gandolfi, Diogene e Alessandro (1792) Roma, Musei Vaticani

 

Concludendo, non sostengo che, per cercare di realizzare la felicità, dobbiamo seguire l’esempio di Diogene di Sinope o percorrere per forza il sentiero dell’eliminazione dell’inconscio desiderio del piacere, come suggerisce Buddha,  ma credo sia molto importante capire quali siano le nostre vere aspirazioni e i nostri reali desideri, comprendere quali siano i più opportuni realizzabili e quali no, e lavorare per raggiungere i primi e superare i secondi.

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BIBLIOGRAFIA

Aristotele

                       Etica nicomachea, Bompiani, Milano, 2000

 

Ealserlin, R. A.

                        Does Economic Growth Improve the Human Lot? in Paul A. David and Melvin W. Reder, eds., Nations and Households in Economic Growth: Essays in Honor of Moses Abramovitz, New York: Academic Press, Inc. 1974

 

Epicuro

                        Lettera sulla felicità, EdizioniStampa alternativa, collana Mille lire, Roma, 1990

 

Fitzgerald, F.S.

1925                 Il grande Gatsby, Einaudi, Torino, 2011

 

Maslow, A.

1954 -       Motivazione e personalità, Armando Editore, Roma, 2010