SCACCO PAZZO

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 SCACCO PAZZO

 

 

 

        di Federica Bassetti

 

Nanny Loy l’aveva portato a teatro sconvolgendo platee e piazze, e Scacco Pazzo continua oggi, nella nuova versione di Vittorio Franceschi, anche regista, a stupire di quello stupore che lascia confusi, leggermente intontiti, oppure a dare prova ai più scettici e razionali di un teatro fatto ancora della carne degli attori.

 

 

 

Loro, gli attori, escono lentamente dai camerini, attesi non a lungo. Si pretende addirittura che scendano le scale interne del teatro: subito. Ma come? Non sono già scesi per noi tutti all’inferno? E debbono calarsi ancora di più, al nostro piano, immediatamente? Dopo la prima dello spettacolo, in scena alla Sala Umberto fino alla fine di maggio, Nicola Pistoia, Paolo Triestino ed Elisabetta De Vito, vivono sottilmente il loro trionfo.

Con l’innocenza propria del rapsodo dimentico del ruolo svolto, Triestino, si chiede se i complimenti e le strette di mano, siano davvero dovute; Pistoia ringrazia, sbattendo le ciglia esperte e stanche, agli apprezzamenti del pubblico; mentre la De Vito si fa strada con grazia, afferrando parole di encomio e di entusiasmo con sorrisi vaghi, appena accennati, e si porta via lentamente quel potere che l’ha resa gioiello in mezzo alle macerie.

Viene fatta a pezzi l’ingenuità sul palco di questo antico teatro, elegante come era elegante una volta andare alle rappresentazioni teatrali, tra cappelli piumati e redingote, divenute nel tempo solo occasioni per acculturarsi, per ripetere gli schemi di difesa e incapsulamento di classe - quella borghese, la quale riteneva di meritare essa soltanto il grande teatro, stupendo pretesto per farsi vedere. Ancora oggi, sebbene malridotta dal livellamento economico-tecnologico che cancella i colletti bianchi e la classe media a colpi di machete virtuale, la volontà di stare al passo con l’abbeveramento culturale necessario per non restare all’ombra dei salotti, si fa ancora sentire. E allora, dopo lo spettacolo volano in aria i convenevoli e le solite parole convenzionali, che poco onorano una pièce, che lascia invece, senza parole. E un po’ di sano silenzio, invece, ci vorrebbe.

La divisione tra teatro borghese e popolare, fu forse il male peggiore, retaggio di una ragione dorica e perbenista che ha attribuito sempre di più nel tempo la fruizione delle opere serie soltanto alle persone più culturalmente attrezzate. Niente di più atroce, se si pensa che il desiderio di complicazione serve soltanto a infilarsi nel circolo vizioso della propria perversa ragione, mentre questo spettacolo né difficile, né intellettuale, sembra invece una spirale ascendente.

D’altronde l’inattivo pathos del teatro tragico greco stupiva a suo tempo Euripide, con il quale si può dire che cominci il teatro “borghese” ; e allora viene da chiedersi se il dramma non spicchi il volo proprio spogliandosi del suo usuale linguaggio - trampolino per volare troppo in alto.

Tragico, emotivo e rivelatore a un tempo, lo “scacco” è “pazzo” e impazza tra le complesse spirali della lingua, cioè del sapiente testo, avvitandosi meravigliosamente su se stesso per bucare alla fine il cuore, dove si compie un altro tipo di apprendimento. Lo spettatore ingenuo, in sintonia con il giro di vite sempre più stretto, allora non ha scampo: viene afferrato, rapito, fermato. Mentre l’altro, lo spettatore incredulo e preparato, diviene oggetto, senza avvedersene, dell’esperimento: lo esegue un teatro omeopatico che inocula il vaccino linguistico, un teatro che fa male per fare bene, perché per guarire dobbiamo sperimentare in dosi controllate il male che ci minaccia. «Grandi doni sono venuti dalla follia alla Grecia», asseriva Platone, e Scacco pazzo ci regala un po’ di follia preziosa, in lotta contro il tempo, finanche quello biologico, mai è fermo.

L’ingenuità, che perdoniamo solo agli innocenti, che sa di lontano e primitivo, che riteniamo sia meglio scansare o destinare solo a momenti scissi dal reale, illusori, è invece proprio il nostro tesoro perduto.

Pistoia ne è conscio, come il suo personaggio, fratello sano e in dolce guerra con il fratello malato, non rinchiuso in un istituzione, dove si inventerebbe il proprio “nido del cuculo”, ma in casa, dove madre, padre, fidanzata - o la sua ombra - rappresentano la continua cura. Cambiando veste, voce e atteggiamento, mascherandosi di fronte al fratello bambino che finge, come tutti i bambini che si rispettino, di non vedere quel travestimento, il fratello consapevole asseconda l’incoscienza dell’altro; o forse, al contrario, la invidia, di certo la sente. Perciò difende con cura le posizioni dei soldatini messi a guardia di invisibili altipiani, che sorgono nell’Universo immaginato dal fratello. Allo stesso tempo, sconta i suoi errori, scovando l’antico miserabile ripostiglio dove lui stesso si è sepolto. E la donna che raggiunge i due nel tentativo di una convivenza con il fratello adulto, si rende conto grazie al fratello bambino che ci vuole tutta una vita a volte, per scontare la propria infanzia. Simile in questo, la sorte individuale, alla nostra civiltà che, in duemila anni, direbbe Nietzsche, ha prodotto paccottiglia, privando l’anima dei suoi vissuti abissali, dal terribile al meraviglioso.

Oggi poi, per una degenerazione linguistica che tecnicizza e non affonda, ma che anzi teme le origini e i simboli come il lancio di una bomba, i due aggettivi abissali, e una volta evocativi,  sono soltanto appellativi, continuamente abusati.

«Cala, cala…», dice sommessamente l’attrice dopo aver ritrovato la gioia semplice del gioco e del libero svago senza senso, proprio assieme al fratello folle e bambino: «Mi dicevano questo quando ero bambina, io volevo volare in alto e loro mi dicevano: cala, cala» … follia contagiosa sul palco, perché ognuno di noi ammattisce e anche Pistoia, ballando mani nelle mani con l’altro, cantando canzoncine assurde e puerili dallo strascico luminoso, si diverte. La follia reale, scansata, nascosta gli dà questa occasione e, come recita la filastrocca del legame fraterno tra i due: «Chi tradisce, poi muore tra le pisce…».

Alcune frasi sono macigni, altre finestre enormi, ma volano via troppo in fretta, come il neonato Peter che Barrie, prima del linguaggio e prima che inizino le regole, sputa fuori dalla finestra. Quanti di noi hanno messo in catene il proprio piccolo Pan? Un esemplare tragico quel Peter che vola nei giardini di Kensington e che all’incontro/scontro con i grandi, farebbe forse la fine del Dioniso bambino, squartato dagli dèi adulti, che si camuffano per simulare il gioco e poi lo divorano.

La recensione purtroppo sa di steccato, e forse dovrebbe abbandonarsi al racconto. Triestino - l’infante dalla mente deforme, mai grande, ma fermo in quel tempo che, come scrive il Franceschi, esiste solo per gli adulti e per i bambini è un cavallo da cavalcare o un fantasma con cui giocare - è capace di aggirare e sfidare l’abisso del non-senso, agilmente; non bravo, ma bravissimo nel darci continua prova del cerchio inarrestabile e patologico delle sue abitudini e dei suoi giochi. Tutte mosse inventate per sopravvivere dal fratello, il fratello che ha coscienza e che pare sveglio, il doppio sano e regolato che ci hanno insegnato a preferire e a favorire in nome dell’umano senso, e che Pistoia fa vacillare con maestria sottile, lasciandoci confusi: chi è il folle? Chi dice la verità? Chi rasenta la seppur minima felicità? Cos’è la sanità?

E il copione? Che brutto nome ha! Colpa delle nostre asfittiche univoche parole, il “copione”, il “testo”, la scrittura frigge gli animi e scarica sugli spettatori il suo stesso civil difetto prima di colpirli al petto.

Goethe, d’altronde, scrivendo il suo Faust, avvertiva che la semplicità e la nudità emotive di Sofocle o di Eschilo non avrebbero potuto neanche sfiorarlo, carico com’era del suo complicato “Romanticismo”. Goethe doveva soffrire e soffrire molto mentre scriveva e così siamo ancora noi, complicati e astratti, sfiniti dalla forma, affetti dal male della Ragione, dell’etichetta, dello schema che pensa a produrre, ad arte e a comando, oggi riso e domani commozione, privilegiando sempre e sempre l’azione.

A teatro invece ci si dovrebbe fermare, e con Scacco Pazzo il pathos sa di essere pathos e non vuole tanto agire quanto subire e sentire. E dopo la grande battaglia tra l’uomo e l’uomo e la donna al centro, lo spirito dell’infanzia se ne sta a terra sconfitto dopo aver subito rassegnato ma fiero i colpi bassi e vigliacchi della vita mai vissuta e che non è più niente. Privata delle origini bambine e del folle slancio, disarcionata dalla furia eterna del suo tempo e ridotta nei binari senza schianto, ecco che la vita riceve un monito lontano, meccanico e attento, una voce tra i binari avvisa i futuri passeggeri delle comodità del viaggio ma ripete, precisa e ruvida come una vecchia geometrica scacchiera, la ricetta per vivere meglio: «Cala…cala…cala di nuovo, cala il tuo entusiasmo, calati giù, tocca terra e abbassa lo sguardo in penitenza. Cala la fantasia e l’innocenza e soprattutto dimentica la vita come esperienza» …

 

SCACCO PAZZO

In scena dal 12 maggio 2015

al Teatro “Sala Umberto”

Via della Mercede, 50

00187 Roma. 

Tel. 06.6794753