L’AMORE CIECO

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L'AMORE CIECO

 

 

Michelangelo Merisi da Caravaggio, Amorino dormiente

 

di Ivan Battista

 

     Love is blind, l’amore è cieco scriveva nei suoi Racconti di Canterbury Geoffrey Chaucer nel Quattordicesimo secolo. In effetti, questa sua affermazione contribuirà ad influenzare la rappresentazione di Amore per tutto l’Umanesimo e il Rinascimento. Nell’antica Grecia, invece, Eros è rappresentato sempre senza alcuna occlusione o benda agli occhi. Per i Greci antichi, dunque, Amore ci vedeva benissimo e sapeva perfettamente dove scagliare le sue frecce.

 

     A chi dare ragione? Alla cultura greco classica o alla variante umanistico-rinascimentale? Per quel che è la mia esperienza umana, ancor prima che professionale, devo dire che sono vere entrambe le cose. Amore è cieco, ma ci vede benissimo! Nel senso che sembra si diverta a colpire a casaccio, mentre, invece, se si studia più da vicino la sua dinamica, si scoprirà sempre una logica, oserei dire, quasi feroce.

      Nella mitologia greca, Eros è un fanciullo, figlio di Afrodite, che si diverte a “perseguitare” sia gli Dei sia gli Umani. Ne I dialoghi degli Dei e delle Cortigiane di Luciano di Samostata, uno scrittore di lingua greca del secondo secolo dopo Cristo, l’autore inserisce alcune interessanti e sottilmente ironiche conversazioni. Nella XIX, Selene confida ad Afrodite di essere innamorata di Endimione, un cacciatore bellissimo, e si lamenta perché Eros non porta rispetto per nessuno, obbligando sia gli Dei sia gli Esseri umani a compiere follie per amore. Nella XX, quella tra Afrodite, la madre, ed Eros il figlio, la dea lo riprende piuttosto seccata per l’ardire di far innamorare anche gli Dei. Amore non si altera nemmeno un po’ e controbatte rifiutando ogni responsabilità, sostenendo di limitarsi a rendere manifesta la bellezza: il resto lo fanno le sue “vittime”, lasciandosi trasportare dalla passione.

     Negli accoppiamenti che possiamo osservare secondo la nostra esperienza, sovente restiamo sorpresi, per non dire sconvolti perché, apparentemente contro ogni logica, alcuni uomini belli e piacenti si accompagnano con donne che descrivere brutte sarebbe un eufemismo e alcune donne, a dir poco leggiadre, si mettono insieme con uomini indescrivibilmente antiestetici. Perché? Qui cosa vale? La regola dell’amore cieco o quella dell’amore che ci vede benissimo? Un bell’uomo con una donna sgraziata fa più notizia di una bella donna con un uomo “fuori misura”. Nelle culture maschiliste, la bellezza è donna e, quindi, in esse non si perdona ad un uomo di accoppiarsi con una donna brutta. In medicina, poi, è stato scoperto uno stretto legame tra bellezza, simmetria delle parti corporee e immunocompetenza[1]. La ricerca della bellezza, intesa come simmetria e proporzione, potremmo interpretarla, pertanto, come spinta inconscia verso il partner con le maggiori garanzie di resistenza alle malattie. Ovviamente, questo vale per entrambi i sessi, ma nelle culture patriarcali, dove la donna è molto più relegata alla funzione procreatrice, la bellezza femminile assume una simbologia e un contenuto inconscio maggiore che è mosso dal principio potente della sopravvivenza della specie. A difesa dell’unione tra una bella mora “florida” e un australopitecus apharensis o tra una pitecantropa di Pechino e un bel biondo alto e ben piantato, dove sembra che Amore si sia davvero impegnato a coprirsi ermeticamente gli occhi, c’è da dire che la bellezza nell’unione, e soprattutto nella frequentazione, non è tutto. Quindi, la cecità di Amore, qui, non c’entra nulla. Oltre la bellezza esiste il fascino e, soprattutto, la corrispondenza del partner (che spesso non ha alcun merito se non quello di coincidere fortunosamente col portato psicologico dell’innamorato in un dato, preciso momento) alle illusioni e proiezioni nonché alle “necessità” di chi ama. L’aspetto schiettamente estetico lascia il passo al contenuto più o meno profondo del portatore, è questo che guida Amore come fosse un GPS, altro che cecità.

      Siamo animali culturali, per di più, e oltre ad essere spinti da potenti forze biologico-naturali, come sosteneva Schopenhauer, siamo anche attratti dalla personalità dell’individuo. Guai se non fosse così, saremmo da tempo diventati una società di soli belli, con l’orribile prospettiva di non riuscire più a possedere proprio il concetto di bellezza che, invece, mantiene una sua importanza straordinaria. Il fascino si può opinare, la bellezza no, per fortuna, altrimenti ci saremmo estinti da tempo, perché il portatore della bellezza è comunque un “sovversivo” che, a ogni piè sospinto, rimette in discussione le certezze e le “placidità” di ognuno attivandone l’istinto più profondo e la spinta alla riproduzione. Dovremmo, allora, ringraziare i brutti con fascino e appeal perché, nonostante ciò che se ne possa pensare, rendono un grande servigio all’umanità: quello di non far sparire l’idea della bellezza (così importante e determinante per la prosecuzione della specie) che, comunque, all’interno delle varie culture, esiste e non è discutibile. In effetti, quando la coincidenza del kalòs, il bello, e della agathòs, la virtù, cioè il contenuto, si avvera, ebbene anche il brutto col fascino (che può essere la sapienza, la simpatia, la sicurezza, il savoir faire o la “pacatezza”) deve cedere le armi.

      Queste che ho fin qui enunciato sono alcune “regole” generali attendibili in amore, ma comunque non del tutto sicure perché, nella quotidianità del vivere, purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di “vista”, dobbiamo fare i conti con la distrazione, la dimenticanza, la presunzione razionale, la pochezza, la piccolezza, l’infamia e addirittura la miseria umana. Contro queste “qualità” non c’è fascino, kalòs o agathòs che tengano. E forse è giusto così poiché, a costo di qualche intenso dolore e di momenti davvero struggenti, sono proprio dette “qualità”, per buona sorte, a ricollocare quasi “in automatico”, con tempi più o meno lunghi, le giuste distanze e le debite posizioni, soprattutto in certi rapporti nati all’insegna del miracoloso e sfracellatisi contro la barriera fisico-psicologica dell’insufficienza e della meschinità più pura.

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[1] Acquisizione da parte dei linfociti T e B (cellule essenziali del sistema immunitario, deputate al riconoscimento e alla distruzione delle sostanze dannose per l'organismo) di specifiche molecole di superficie (recettori), che permettono loro di riconoscere tali sostanze e neutralizzarle. L'immunocompetenza è l'attributo fondamentale che i linfociti assumono durante il processo di maturazione, che trasforma i precursori in linfociti dotati dell'apparato cellulare indispensabile per rispondere alla stimolazione antigenica. Tale maturazione avviene nel timo per i linfociti T e nel midollo osseo per i linfociti B (cit. di www.sapere.it ).