PROCESSO DELL’UTRI

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PROCESSO DELL’UTRI 

 

 

Locandina di “Processo Dell’Utri”

Teatro di Documenti:

Via Nicola Zabaglia, 42, Roma

Telefono:06 574 4034

di Federica Bassetti 

In scena fino a domenica 8 marzo al Teatro di Documenti di Roma, lo spettacolo sul processo dell’Utri, è stato un evento del quale si spera un seguito. «Due anni di lavoro», dice il regista Paolo Orlandelli, «sono stati necessari per riunire i pezzi di questo processo», circa mille pagine pubblicate, senza un filo comune, che lui ha estratto e nel quale ha infilato pazientemente le perle, per trasformare una realtà sparsa e frammentaria in una lineare, che sotto le deposizioni e le domande giurate, diventa finalmente racconto.

 

 

Il pubblico si mette in ascolto. E viene messo a dura prova, visto che lo spettacolo dura quasi due ore e mezza, ma senza peso se ci si abbandona al tipo di rappresentazione, fedele alla realtà ritmica dei nostri tribunali, specchio di una condizione che puzza di immobilismo e che mette a confronto il linguaggio forense, antico, analitico della giustizia degli uomini togati con la chiacchiera fin troppo vitale, impastata, a volte ipnotica dei pentiti siciliani.

 

Il cast di “Processo Dell’Utri”

 

Che attori, quelli che gli attori stessi interpretano! E non di rado tra i testimoni, lucidamente caratterizzati, qualcuno tra gli spettatori intravede la palude dove rischia di sprofondare questo processo fiume, persino qui, a teatro, luogo ideale per narrare i fatti della nostra epoca. Un’epoca di attualità brutale e obliante che informa troppo rapidamente (e quindi disinforma) e che non lascia meditare, a differenza del teatro. Ma questa piece vince la sfida e riesce a sintetizzare un ventennio in due ore e mezza.

Assistiamo allo svolgersi del processo di I grado, che si conclude con la condanna a undici anni di carcere all’imputato Marcello Dell’Utri. Questi poi vengono commutati in sette, in II grado, una condanna che la Cassazione conferma e che, dopo l’estradizione dal Libano del senatore latitante, sono diventati carcere reale. Dell’Utri è stato il fedele braccio destro di Silvio Berlusconi, sin da quando, entrambi giovani, cavalcavano gli anni Settanta di una Milano dove Camorra, Mafia e ‘Ndrangheta già si spartivano affari e territori. Parlare di Dell’Utri significa affacciarsi, quindi, su un ventennio di imprenditoria inquinata, di come siano nate Publitalia e Fininvest  grazie a i prestiti miliardari del crimine organizzato di matrice siciliana.

L’imprenditore Rapisarda parla di dieci e anche venti miliardi per l’investimento edilizio di Publitalia e poi per le televisioni. Ci troviamo a fine anni Settata e il camorrista Cozzolino alza la posta,  riferendo di un investimento mafioso di circa settanta miliardi: era Dell’Utri a riciclare il denaro mentre Berlusconi viene definito “vittima consapevole”, che, dato l’alto numero di mafiosi incarcerati o morti ammazzati, forse ha potuto non restituire molti dei soldi investiti.

Attraverso dell’Utri, Publitalia chiedeva il 50% in nero sugli sponsor e il “vittimismo consapevole” di Berlusconi, a quei tempi minacciato da possibili sequestri di membri della sua rampante famiglia, si risolve con la protezione di Cosa Nostra. Sebbene sia tutto agli atti, è certo che sorvolare un ventennio e planare fino agli anni Novanta, per arrivare a un Dell’Utri giudicato colpevole di connivenza con Cosa Nostra, non stupisce, né consola. Vengono fuori nomi a noi noti e che fanno parte oramai della mitologia mafiosa: Stefano Bontade, Mimmo Teresi e, a un certo punto, persino Giovanni Brusca. Eppure il processo Dell’Utri non è un processo a semplici criminali. E’ il processo che il Paese continua a fare a se stesso, in una specie di ossessivo tentativo di falso risanamento; è l’accusa e lo scontro con il proprio doppio, specchio di una Storia abortita che troppo spesso ha preferito l’oblio e l’ottundimento anche di fronte ai fatti più gravi e più incancellabili del momento. Noi siamo soliti tenere l’ombra ben nascosta. Con esiti imprevedibili. Così, se dopo la morte del duce sembravano non esistere più fascisti in Italia, a partire dai maxi processi, invece,  i mafiosi hanno fanno sentire mafiosi anche noi altri, come se la mafia fosse una colla, un ospite indesiderato ma presente che ognuno di noi porta dentro, come una seconda personalità che vive e vegeta nel fondo. Un nemico che non di rado si rivela, dimostrandoci che non c’è e mai ci sarà integrazione vera, per usare una terminologia junghiana.

E Dell’Utri? Ma lui ci andava a scuola con i mafiosi, sono cresciuti assieme, erano compagni di giochi: che altro aspettarsi? E poi. Sta ancora in carcere o è uscito? E questo appello è solo il primo e dopo?....

Come accade per gli individui, anche i popoli debbono confrontarsi con il proprio aspetto oscuro, ma viene da chiedersi se noi abbiamo lo abbiamo effettivamente fatto o, piuttosto, ci siamo limitati a puntare ipocritamente il dito contro il colpevole di turno. A una certa distanza, scrollando il capo, sdegnati. Invece, non ci vergogniamo del nostro sorriso scoraggiato di fronte a un tale panorama di devastazione;  e non ci vergogniamo quando, scrollando il capo, ci rendiamo conto di aver visto, più che tradita la nostra morale, confermata la morale di quell’altro, il mafioso, la quale, aderendo alla nostra, fa dell’uomo d’onore un personaggio di indubbio rispetto. Ci accade come nel film di Alberto Lattuada “Mafioso” (1962),  dove Alberto Sordi, per ricambiare il favore al padrino che l’ha sistemato in Nord Italia, compie un omicidio; quindi torna al lavoro. Nel finale, restituisce la penna al collega che gliela ha imprestata prima del viaggio, questi lo ringrazia, sorpreso di tanta correttezza, e commenta: «Fossero tutti come lei, dottore …».

        Tolleranza e individualismo ci contraddistinguono anche nel tollerare il nostro eterno crimine: mettere la testa nella sabbia. Ne consegue che se se non evinciamo mai le colpe anche i nostri meriti vengono meno, ovvero manca il riconoscimento.

Il “Processo Dell’Utri” messo in scena al Teatro di Documenti di Roma è un percorso scevro da drammatizzazioni insistenti e da prosaici tentativi di risanamento. Scorre crudo, seduto, ripetitivo, assurdo - soprattutto quando i testimoni e i collaboratori di giustizia si rivelano, dietro al microfono, abitanti dell’altro mondo, dove sequestrare le persone e portare quintali di droga in treno, sembra un lavoro come un altro.

Delicato e doveroso, il lavoro di Cosa Nostra è anche quello degli imprenditori affiliati e quello dei conniventi politici di turno. Faticoso anche per gli attori e per il regista che compare nella veste di giudice, del quale al pubblico giunge soprattutto la voce asciutta, perentoria, netta, Tutti interpretano a turno due personaggi diversi, tranne l’apparizione unica di Andrea Tidona, che apre in grande la scena. Anche lui testimone collaboratore di una giustizia che il pubblico ministero alla fine dello spettacolo-processo annuncia assoluta e sin troppo esatta, ma sulla quale, avverte, deve poi adattarsi il caso, la pena giusta, la realtà relativa e umana e transeunte, che non è mai e non può esser mai assolutamente giusta.

Documento importante al Teatro di Documenti, perché chiarifica qualcosa, perché agli occhi dei cittadini una giustizia così lunga si perde, si spezza e si dissolve.

“Giusti” invece sono gli attori, senza eccezione. Spesso s’ignora il loro sacrificio, si dimentica che alla rappresentazione arrivano dopo mesi di prove estenuanti, non sempre pagate, quando il regista è uno studioso, un ricercatore, un nobile servo del pathos.

Solo il teatro può scendere a compromessi con i demoni ed evocarli e, una volta offerta la loro testimonianza, i demoni si tramutano in uomini normali. Lo fanno in un mondo capovolto, come recita uno degli ultimi testimoni, un napoletano, interpretato da un giovane attore calato così bene nel testo da darci davvero l’idea - mentre si lamenta del lavoraccio che comporta trasportare chili di morfina, che dovrà essere trattata e trasformata in eroina - di essere poco considerato, visto che corre grossi rischi, perché lui non conta molto ma è necessario, perché, certo, di Cosa Nostra lui non può immaginare il vertice occulto.

“Berlusconi”, “Dell’Utri”, “Bontade”, nomi altisonanti, fin troppo noti, nomi alti che lui vede confusi. Lui non sa neanche che vuol dire onore, dignità del siciliano, rispetto reciproco, lui è uno qualunque e per di più napoletano, ed è uno dal quale ci guarderemmo passando, perché si presenta male, è sozzo, maleducato e non ci piace, mentre l’uomo d’onore in doppio petto, purtroppo, ci suscita sempre una certa impressione e non sappiamo mai cosa veramente pensare, guardandolo.